Vent’anni di amore Emiliano

William Clayton, un immigrato “in prima classe”

«Sono arrivato a Correggio nel 1995, diciamo per amore, e da allora non me ne sono più andato. Ora ho una famiglia e la mia vita è a Correggio».

William Clayton, cittadino inglese, da vent’anni residente a Correggio, conduce una piccola agenzia di promozione e vendita all’estero di prodotti alimentari italiani.
Ci accoglie nella nuova sede di via Conciapelli.

Da dove vieni, esattamente?
«Vengo da Penzance, un paesino di pescatori della Cornovaglia, sull’oceano. Un posto meraviglioso, ma che ai giovani non ha mai offerto molto.».

Come sei capitato a Correggio?
«Avevo diciannove anni ed ero iscritto all’Università quando ho conosciuto una ragazza di Mandrio che si trovava in Inghilterra per un periodo di studio.
Ci siamo messi insieme e, arrivata l’estate, abbiamo deciso di trascorrere le vacanze in Italia.
Quando sono partito, mio padre mi ha detto: “Vedi di non tornare a mani vuote”, e così è stato». 

Si è trattato di una scelta anomala e, in parte, coraggiosa…
«In Inghilterra la famiglia ti abitua a essere indipendente. A quattordici anni ho cominciato coi primi lavoretti, come la raccolta della frutta o la consegna del giornale.
Credo che questo, alla lunga, mi abbia aiutato».

Come è stato il tuo impatto con l’Italia?
«Sono arrivato in Italia nel giugno ’95, con tremila lire in tasca.
Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Ho avuto subito modo di apprezzare l’ospitalità emiliana.
La famiglia della mia ragazza, infatti, mi ha accolto nella propria casa.
Terminata l’estate, ho deciso di restare. Così sono andato a vendemmiare dai Rustichelli, a Mandriolo.
Poi ho trovato lavoro come operaio alla Bett Sistemi, che nasceva proprio in quegli anni.
All’inizio ero solo uno dei tanti immigrati. Certo per un inglese è più facile: posso definirmi un immigrato “in prima classe”, ma ho dovuto imparare a farmi valere.
Capisco quanto possa esser dura per chi, ancora oggi, proviene dall’estero, soprattutto dai paesi più poveri.
La mia vita procedeva fra lavoro, cene a casa di amici, uscite al bar, feste della birra, feste dell’Unità: Correggio in quegli anni offriva tanto.
Mai avrei pensato di assistere, nel giro di poco tempo, ai concerti di Patti Smith, Jamiroquai, Ben Harper, Iggy Pop e tanti altri».

Poi hai fatto carriera…
«Devo ringraziare il mio datore di lavoro. Da operaio, ho iniziato con la traduzione dei cataloghi, poi ho fatto da interprete simultaneo con i clienti esteri. Quindi ho cominciato a seguire il titolare nei viaggi all’estero e sono diventato prima personal manager, infine export manager. Nel 2008 ho deciso di aprire la partita Iva. Grazie alla mia compagna Francesca ho avviato una piccola ditta, la Food Partner, con un socio e cinque dipendenti. L’Italia e l’Emilia presentano enormi potenzialità, sfruttate solo in parte. Devo ringraziare Veroni e Lirma food che hanno creduto in me».

Che cosa rimpiangi, maggiormente, dell’Inghilterra?
«L’organizzazione. Lì è tutto più semplice. L’Italia è il posto più difficile, in Europa, in cui lavorare.
Il “manuale d’uso” della vita in Inghilterra è chiaro, lineare.
In Italia il “manuale d’uso” è un’enciclopedia, molto complessa. Dell’Emilia, oltre all’ospitalità, ho apprezzato la creatività e la laboriosità.
Non era l’Italia conosciuta all’estero, del sole, del mare, della bella vita. Era l’Emilia, con il suo odore di letame, i grugniti dei maiali, il lavoro.
Col tempo ho imparato a conoscere anche la storia della Resistenza e ho capito che gli emiliani sono un popolo tenace.

Quest’anno compirò quarant’anni e avrò speso più di metà della mia vita a Correggio. Nella vita ho imparato molto e ho ancora tanto da imparare.
Forse sono stato aiutato dall’unire la forma mentis inglese alla qualità dei prodotti italiani».

Questo incontro ci dà molti spunti di riflessione, grazie alla lucidità di William, proprio per il suo essere “dentro” e “fuori” allo stesso tempo.
«Ho passaporto inglese, ma mi ritengo cittadino europeo.- dice- Di fronte all’ ondata di flussi migratori, è normale avere paura.
Occorre lavorare molto sull’accoglienza, fornendo a chi arriva gli strumenti culturali per vivere qui. E a questo scopo, la scuola può fare molto».

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