Immagina di essere Riad, tunisino di 20 anni, in fuga da Addis Abeba.
Oppure Alaa, 33 anni, con la moglie Dana e i figli Hamad e Rama in fuga da Aleppo.
Questo è lo storyboard che i ragazzi delle classi 3A classico, 4B scientifico e 4B classico del Liceo Rinaldo Corso hanno usato per calarsi nella vita di un migrante che tenta di arrivare sulle nostre coste, sperando di sopravvivere ad un viaggio spesso mortale, in cerca di un domani migliore.
Perché, come ci ha detto un ragazzo della Nigeria, per voi «futuro significa fare progetti, per noi significa poter mangiare ogni giorno».
Ma il “gioco” è solo l’approccio perché quelle storie sono tutte vere: con il passaporto distribuito dai formatori, i ragazzi hanno provato a fare le scelte giuste (dove vado? Con chi? Quanto denaro spendo? Mi fido di questo scafista?) per arrivare a destinazione. Pochissimi sono arrivati, molti sono morti in viaggio o rimpatriati.
Purtroppo non solo nel gioco dei ragazzi, ma anche nella realtà delle biografie lette al termine della simulazione.
Il progetto “Uomini in fuga” è stato realizzato con “Granello di senapa” di Reggio Emilia in quattro incontri.
Nel primo incontro siamo partiti da dati e termini come “migrante”, “rifugiato”, “richiedente asilo”; nel secondo e terzo incontro abbiamo vissuto l’esperienza della simulazione del viaggio in mare e dell’arrivo in un paese straniero.
Nel quarto, alcuni ragazzi richiedenti asilo ospitati a Correggio, hanno portato la loro testimonianza in un incontro insieme.
Scrivono gli studenti: «È stato un progetto ben costruito perché ogni incontro ci ha immerso sempre più nella condizione dei migranti», passando da discorsi generali fino al faccia a faccia con questi uomini e donne in fuga di cui sentiamo tanto parlare.
«Abbiamo visto brave persone, con una vita difficile», «persone forti e coraggiose… ma anche semplici, modeste e simpatiche».
«Non hanno nulla di diverso da noi e hanno diritto, in quanto esseri umani, ad essere aiutati» perché «anch’io ho provato paura, tristezza, senso di oppressione… ma anche speranza».
«È stata una delle esperienze più forti ed intense che io abbia mai vissuto»: dopo questo incontro «ritengo sia impossibile avere dei pregiudizi nei loro confronti» perché un’esperienza vera «dà la possibilità di comprendere la portata di questo dramma e ciò che si può fare per l’integrazione.
Queste storie mi hanno liberato la mente e ho iniziato a pensare in modo diverso».
«La testimonianza dei ragazzi è stata toccante perché fare domande e sentirsi rispondere “no, di questo non posso parlare” è stato uno di quei limiti, citando una frase di D’Avenia, da cui nasce la Bellezza…» perché c’è il mistero dell’altro, la sua dignità, il suo dolore silente.
«In TV ci dicono che i migranti arrivano in Italia e ci rubano il lavoro, dicono che sono diversi da noi ma i giovani che ho avuto il privilegio di conoscere sono come noi anche se hanno già una lunga storia da raccontare».
Abbiamo deciso di concludere questo percorso, come si fa in Emilia tra amici, con un pranzo.
Portando qualcosa da casa, tutti insieme nei locali della parrocchia di S. Quirino, abbiamo mangiato, giocato, riso: la cosa più bella è stata la gioia dei ragazzi immigrati nello stare in mezzo a noi.
Per abbattere le barriere linguistiche e culturali, che spesso sembrano insormontabili, a volte bastano un bigliardino e un sorriso.
O una partita a calcetto, come quella disputata qualche settimana dopo.
Quando li ho visti nel campetto, il mio pensiero è andato ad una scena del film “Timbuctu” in cui un gruppo di ragazzini, a cui gli integralisti hanno proibito l’uso del pallone, giocano… senza pallone!
Questa volta i ragazzi del Mali hanno pallone e nuovi amici: abbiamo vinto!