Una vita al servizio dei più piccoli

Rita Beltrami ci racconta le scuole per l'infanzia

Dopo una lunga carriera educativa nelle scuole comunali dell’infanzia, da pochi mesi Rita Beltrami è in pensione. Di lei si parla da sempre come un autorevole punto di riferimento per i genitori e per i bambini, oltre che per le colleghe, soprattutto quelle più giovani. Chi l’ha conosciuta sul lavoro ha potuto apprezzarne la preparazione pedagogica, l’impegno e la forte motivazione etica e civile, la capacità di creare empatia, serenità e collaborazione. Ha una “forza gentile” che contamina e che traspare pure nelle risposte alle nostre domande, nell’intervista che qui di seguito pubblichiamo.

Iniziamo dal principio: quali sono state le motivazioni che l’hanno spinta a dedicare la sua vita lavorativa ai più piccoli?
Il diploma mi ha offerto l’opportunità di uscire dall’attività di mio padre, che coinvolgeva tutta la famiglia: mi piaceva il lavoro ma i miei 20 anni volevano indipendenza, un futuro che mi assomigliasse. Ho fatto un passo di lato, mi sono spostata da un percorso e grazie al sostegno di mia madre ho trovato una strada nuova, la mia. Sono una persona normale e allora ero confusa sulle mie aspirazioni come lo erano, e lo sono tuttora, molti ragazzi: non sentivo dentro di me un richiamo particolare, una vocazione, ma ho avuto pazienza, ho incontrato persone vere e ho imparato dalla loro esperienza e sono andata avanti.

Quanti bambini ha seguito in questi anni?
La matematica non è il mio forte. Tanti, comunque. Seguire è parola corretta. Io ho seguito i bambini, sono stata dietro, non ho guidato la fila. Loro mi hanno insegnato a tenere il naso all’insù, a sporcarmi le mani, a coltivare il piacere di raccontare storie e vedere il bello nelle cose che si raccolgono in terra e si possono mettere in tasca.

Vediamo sempre più spesso tanti bimbi incollati agli schermi dei vari dispositivi elettronici: è cambiata la loro indole o si sono semplicemente adeguati, così come i loro genitori, ai nuovi strumenti tecnologici?
Domanda tranello, in quanto è facile cadere in risposte vaghe e di scarsa utilità. Ciò che so, come milioni di persone su questa terra sanno, è che si utilizza sempre ciò che ci circonda. I dispositivi elettronici esistono, fanno parte della nostra realtà, non possiamo combattere ciò che rende la vita semplice ed è fonte di lavoro per molti giovani d’oggi. Si deve solo fare attenzione: il troppo stroppia, sempre, dal videogioco alla pastasciutta. Mi infastidiscono le prese di posizione che obbligano i bambini a crescere abitando sul pinco panco delle diverse teorie degli adulti. La mia regola è cercare l’equilibrio del buon senso e la scuola è la differenza, è il perno dell’asse, è l’opportunità di abitare la relazione positiva, il gioco, l’esplorazione. E per fare queste cose basta un giardino, un parco, un amico, un libro e un adulto che stia con loro. Con i bambini intendo. Ed è questa la cosa più difficile.

Come sono cambiati i metodi pedagogici nel corso degli anni?
La domanda di pedagogia non l’avevo prevista, provo a rispondere. A mio parere il metodo, in ambito educativo, è un riferimento fragile: i bambini hanno questo brutto vizio di scombinartelo sempre. La scuola è ambito di accoglienza di differenze, dislivelli, bisogni, competenze, relazioni che obbligano l’educatore a confrontarsi con metodologie dal respiro aperto. Il valore del cambiamento “del metodo” nel corso degli anni è nel plurale già compreso nella domanda; il plurale è la chiave di volta. Il cambiamento sostanziale è tenere conto della pluralità dei soggetti che la scuola accoglie: bambini, bambine, famiglie, culture. Una pluralità che si declina in un’unica forma: l’ascolto.

«MI HANNO INSEGNATO A TENERE IL NASO ALL’INSÙ,
A SPORCARMI LE MANI»

Negli anni Duemila abbiamo assistito al diffondersi di corsi di Laurea dedicati per ogni tappa della scolarizzazione: quanto conta la preparazione didattica, e quanto l’esperienza sul campo?
Una non può esistere senza l’altra. Risposta scontata. Sono impreparata a rispondere in modo approfondito. Io sono una maestra non laureata ma spesso ho avuto la necessità di colmare questi “vuoti” della mia preparazione, attraverso un impegno personale di studio che mi è costato fatica perché fatto incastrandandolo in una vita già densa di impegni. Ringrazio per questo l’aiuto di una formazione continua, stimolante e significativa compresa nel percorso lavorativo che mi ha permesso di confrontarmi con la teoria che sempre deve sostenere il nostro lavoro. La preparazione è indispensabile per capire dove vai, cosa stai facendo e perché fai una scelta piuttosto che un’altra. La preparazione è gesto di responsabilità in una quotidianità con i bambini che non è mai scontata. L’esperienza sul campo rende il tuo lavoro più bello, riempie di ricordi una vita, la tua, in questo caso la mia.

I telegiornali raccontano episodi di violenza perpetrati dagli insegnanti ai danni dei più piccoli: è solo allarmismo o è un pericolo concreto? Se sì, cosa si può fare per prevenirlo?
Come tutti sono inorridita. Esistono mille altri mestieri che uno può scegliere. I telegiornali campano di cattive notizie, di sensazionalismo, e purtroppo non vanno a cercare gli esempi scolastici virtuosi, che ci sono, esistono. Non sono una chimera. Non c’è pareggio nella diffusione delle notizie e si crea un clima di sfiducia a cui può essere difficile far fronte. La violenza in sé mi disorienta e personalmente non l’ho mai vissuta né incontrata. Inoltre sarei presuntuosa se mi avventurassi a proporre situazioni di prevenzione in ambito di selezione del personale. Sicuramente l’omertà, come sempre e in ogni luogo in cui si manifesta, è inutile e dannosa.

Quali sono i ricordi più piacevoli dei suoi quarant’anni di professione?
Non esiste una classifica ma le mie colleghe sono una parte importante dei miei ricordi più belli; con loro ho condiviso un’emozione che oggi sembra fuori moda: la passione di fare il proprio lavoro. L’idea di appartenere, di essere con, è un ricordo impagabile. Immediatamente successivo il ricordo di tante famiglie, della loro fiducia, del rispetto dimostrato nei miei confronti. Se arrivi a sentire questo, beh, non so raccontarlo; grazie. Poi tanti, tantissimi microscopici frammenti che arricchiscono un album che sta solo nella mia testa: fatti, persone, avvenimenti. Ognuno è bello, importante. Raccontarne pochi è discriminatorio verso quelli che sono costretta a tralasciare. Quindi ho moltissimi bei ricordi, soprattutto perché li ho condivisi. Mi permetto una sola concessione, perché è un ricordo che tutt’oggi vivo: la nascita del coro “Coriste per caso”. Il coro di oggi è nato una giornata di primavera dentro le scuole comunali, con la volontà di proporre un modo di aggregazione, nuovo e stimolante, alle famiglie dentro la vita delle scuole e nidi d’infanzia comunali. Esperienza entusiasmante perché quell’idea, quel valore oggi canta ancora. Ultime, ma non per importanza due cose: la prima sono i bambini tutti, perché hanno reso la mia vita migliore e mi hanno aiutato a comprendere il significato della parola “gioco anch’io”; la seconda è la scuola in quanto tale, una parola di grande valore.

Quali consigli si sente di dare a chi porterà avanti la sua “missione”?
Nessuno. Chi dà consigli non richiesti è un presuntuoso. Io sono “ieri”. L’oggi va costruito con forze ed idee nuove. Azzardo un invito: leggere. I libri sono come i bambini, bisogna combattere per loro.

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