Voglio essere sincera con voi: “Il maestro e Margherita” non era lo spettacolo di questa stagione teatrale che aspettavo con più trepidazione. Anzi, lo temevo anche un po’, per due semplici motivi: il primo, è che il libro dal quale è tratto è un capolavoro letterario che, però, data la sua complessità, mi ha sempre messa molto in soggezione; il secondo è che, come già sapete, con gli spettacoli lunghi mi trovo un po’ a disagio, e questa riscrittura di Letizia Russo, andata in scena all’Asioli nelle giornate di lunedì 4 e martedì 5 Febbraio, che vede Michele Riondino nel ruolo di Woland, dura due ore e quaranta minuti più l’intervallo.
Date queste premesse, voi comprenderete come io mi sia recata a teatro timorosa di uscire sconfitta dalla complessità dell’opera.
E invece… sono stata conquistata da questa rappresentazione che è riuscita a fondere, in un sapiente gioco di equilibri, le tre vicende narrate nel testo originale, donando una tangibilità alle inquietudini, ai conflitti, alle visioni parte del tessuto narrativo del romanzo di Michail Bulgakov. Credo che la scenografia abbia dato il suo contributo alla riuscita del tutto; le tante porte che si affacciavano sul palco, dalle quali entravano ed uscivano gli attori, risultavano come delle “finestre temporali” tramite le quali si veniva catapultati nelle varie storie, e, allo stesso tempo, gli attori che arrivavano sul palco tramite quelle aperture ben celate sembravano quasi delle semplici apparizioni, delle ombre di loro stessi che richiamavano il mondo misterioso, a tratti allucinato, descritto da Bulgakov.
E che dire di quel diavolo di Michele Riondino? L’attore tarantino è decisamente strepitoso nei panni di Woland, ossia del diavolo che arriva, con il suo seguito, nella Mosca degli anni venti, dove uno scrittore, il Maestro, è stato rinchiuso in manicomio per aver scritto un testo sulla vita di Ponzio Pilato, nel quale afferma che Gesù Cristo è davvero esistito. Sguardi ammiccanti, risate diaboliche, andatura claudicante, fanno di Riondino un diavolo non solo convincente, ma verso il quale risulterebbe ben difficile non provare un po’ di compassione, come richiesto dai Rolling Stones nella canzone “Sympathy for the Devil”, che chiude lo spettacolo.
D’altra parte, un grande romanzo spesso è tale proprio perché trova la via per insinuarsi nella mente dei lettori inducendoli a riflettere; e il diavolo Woland è di fatto al centro di una delle grandi domande che scaturiscono dalla lettura del libro e dalla visione dello spettacolo teatrale: cos’è bene e cos’è male? Dove inizia uno e dove finisce l’altro? E soprattutto: se non esistesse il male, ci sarebbe solo il bene o, invece, queste due “grandezze” sono dipendenti una dall’altra?
Sono domande filosofiche di quelle davvero difficili, che richiedono secoli di riflessione; dal canto mio, mi prendo il tempo per pensare e mi piego al volere di Woland quando chiede: «Sii tanto cortese da riflettere su questa domanda: che cosa sarebbe il tuo bene se non ci fosse il male, e come apparirebbe la terra se non ci fossero le ombre? Le ombre nascono dagli oggetti e dalle persone. Ecco l’ombra della mia spada. Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Non vorrai per caso sbucciare tutto il globo terrestre buttando via tutti gli alberi e tutto ciò che è vivo per godere della tua fantasia di nuda luce?».