Storia precaria del monopáttino

Il monopàttino è la cosa più vicina a terra dopo la biscia. Negli anni quaranta e cinquanta da noi era un semplice giocattolo in legno spinto da una gamba, che aiutava a sbucciare ginocchia d’infanti. Ma nella sua storia ultra centenaria è stato utilizzato anche da postini e da impiegati, meglio se in piano o in leggera discesa. Più che un mezzo di trasporto è un decimo di trasporto, tuttavia in Congo viene ancora usato per portare merci (si chiama “chukudu”).

Oggi è esplosa la moda del “monopàttino a batteria”, che fa a meno della propulsione ortopedica. Addirittura viene incentivato dallo Stato tramite “bonus”, perché ecologico. In realtà non sostituisce affatto automezzi con motori inquinanti, bensì ricreativi giri in bicicletta o camminate salutari. Anche a Correggio il monopàttino elettrico ha cominciato a popolare piste ciclabili, marciapiedi e portici.

A sfrecciare per i portici di Correggio, prendendoti silenziosamente alle spalle come un guerriero Sioux, sono soprattutto minorenni. Dovrebbero avere un casco di protezione. E finirà che lo avranno, quando farà tendenza.

D – Ma sai frenare? Ancora un metro e mi centri come un birillo!

R – (avrà quindici anni, messi male) – Sei un birillo troppo cresciuto. Non lo sai che basta togliere batteria e il “coso” si arresta?

D – E perché cavalchi il “coso” qui sotto i portici?

R (allontanandosi a tutta velocità) – Perché il “coso” ha bisogno di liscio… capito? di liscio.

Già, perché il monopàttino elettrico non ama buche, cordoli, sassi e dissesti vari. Allora rido tra me, perché dietro la curva dei portici di via Mazzini, proprio dove adesso sta svoltando il monopattinista, è acquattata una storica buca scavata nel marmo della pavimentazione.  Il “liscio” a Correggio non è “per sempre”.

 

D – Hai sentito un botto?

R (un mio amico che fa l’opinionista al bar) – No, mi dispiace

D – Questi monopàttini elettrici per me sono senza futuro

R – Siamo solo agli inizi. Stanno organizzando il giro d’Italia in monopàttino, truppe armate in monopàttino, centri vaccinali in monopàttino… E poi evoluzioni interessanti del monopàttino elettrico: a tre ruote, con parabrezza, con sgabello… Però forse hai ragione: finisce che diventa una motoretta… un po’ spartana.

 

Il professore del Liceo Rinaldo Corso transita sulle basole di via Mazzini in giacca di fustagno e barba fluente: sta impettito su un monopàttino elettrico nuovo fiammante.

D – Professore, mi permette una domanda? Ma cosa ci fa una persona seria come lei, nota per il rigore del pensiero, su questo trabiccolo? Le ricorda l’infanzia felice?

R – Veramente l’ho rubato a mio nipote. Sa, mi sto interrogando sull’ontologia dell’attrezzo. Che, detto tra noi, presenta qualche problema. Sostanzialmente non è né carne né pesce. Un vigile mi ha fermato sulla ciclopedonale verso Fosdondo e mi ha intimato di uscirne: «Vede il segnale stradale? Lei ha un mezzo a pedali? No. Lei usa i piedi? No. Quindi non è né ciclo né pedone.» E quando, obbediente, mi sono spostato sulla strada: «Ma cosa fa? Lei ha le ruote del diametro consentito? Ha le luci di posizione? Ha il segnale acustico? Ha la targa? No. Quindi sulla strada non ci può stare.» Perplesso mi sono informato se c’era un luogo dove potevo stare. Il vigile rifletteva: «Forse marciapiedi e portici, perché la normativa non è così chiara».

D – Questo spiega alcuni fenomeni…

R – Insomma, il monopàttino elettrico è una sconvolgente metafora dell’incertezza esistenziale, dell’attuale difficoltà dell’uomo a decidere cosa vuole, ad assumersi delle responsabilità, in bilico tra l’essere ciclopedone o motorizzato

D – Non avevo mai considerato la questione sotto questa luce

R – Mi creda, è solo applicazione della metafisica ai mezzi di trasporto: il monopàttino tradizionale era semplicemente un pedone su due ruote, ma con quello elettrico diventa un autista in piedi. C’è una differenza di prospettiva esistenziale. Tutto ciò fa pensare, no?

 

Leggo il giornale e rifletto su una notizia: nelle città c’è il fenomeno dei monopàttini pubblici sedotti e abbandonati. La gente li prenota con un’app, ci fa un giro e alla fine li lascia per strada dove capita. Che poi qualche passante ci inciampa sempre e inveisce contro lo Stato. Perché sembra che il monopàttino non si infili nelle rastrelliere e la gente non abbia il tempo di metterlo sul suo supporto: così viene adagiato. Insomma, il monopàttino vive nella precarietà.

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