«Ballata di uomini e cani è un tributo a Jack London».
Si esprime così Paolini commentando il suo spettacolo, andato in scena al teatro Asioli nelle giornate del 10 e 11 marzo scorsi.
Ma io non parlerò delle traduzioni orali che l’attore ha dato di tre racconti scelti tra la produzione dello scrittore americano.
Chiariamoci: la sua interpretazione è stata appassionata e appassionante.
Chapeau anche alle musiche originali eseguite dal vivo che hanno avuto la capacità di prendere lo spettatore dalla poltrona sulla quale era seduto per trasportarlo fino al cuore della foresta canadese, dove sono ambientate le vicende.
È stato, però, l’ultimo racconto a colpirmi più di tutti, quello che con Jack London non ha niente a che fare.
La vicenda narra di Zaher, ragazzino afghano al quale la famiglia consegna tutto il denaro che possiede perché lo usi per scappare in un luogo in grado di offrirgli un futuro.
E Zaher parte.
Attraversa l’Asia attaccato ad un treno.
Arrivato a Patrasso si imbarca e raggiunge Venezia, dove riprende la fuga nascosto sotto un autotreno, ma scivola, “capita…”, e viene investito da quelle stesse ruote alle quali aveva affidato la propria sopravvivenza.
Rimane schiacciato “come un cane. Sembrava un cane morto”.
Finisce così la sua vita: con una morte precoce, nell’indifferenza.
Zaher ora non è che un cadavere sconosciuto disteso tra persone che provano per quella non-presenza solo fastidio.
Questa storia Paolini la consegna agli spettatori sul finale, perché ognuno possa portarla a casa e rifletterci sopra ed io non riesco a sottrarmi al compito che mi è stato affidato.
Alcuni personaggi, che si sono affacciati nelle vite dei protagonisti dei racconti di uomini e cani, si offrono come guide dei miei pensieri.
Sono figure di italiani emigrati in Canada per partecipare, come tanti altri, alla corsa all’oro, ma lì, non sono ben visti dagli americani, dai tedeschi e dai canadesi stessi.
Ai loro occhi appaiono diversi a causa dei modi di fare chiassosi, dell’abitudine di parlare gesticolando, del cibo che mangiano, del vino che bevono.
E così vengono emarginati.
Mi viene da farmi una domanda: «Come mai noi, proprio noi, che abbiamo nel nostro passato più prossimo una storia fatta di emigrazione, clandestinità, marginalità, che siamo stati esuli nella nostra stessa terra, proviamo per lo più rabbia e diffidenza per gli Zaher che ci circondano?».
Quando si dice il caso del destino, il giorno dopo lo spettacolo, in un libro che sto leggendo trovo questa frase: “Le persone coscienti della propria storia sanno aprirsi al nuovo e al diverso”.
Ecco, io credo che sia ora di rispolverarla quella nostra storia, e sono grata a persone come Paolini che sanno farlo inserendola anche tra le righe delle storie degli altri.
Su Jack London due domande a A Marzia Ronchetti
Responsabile Piccolo Principe biblioteca ragazzi ludoteca
Qual è il rapporto che hanno i ragazzi di oggi con libri quali “Zanna Bianca” o “Il richiamo della foresta”? Sono vicende in grado di affascinarli ancora o preferiscono altri autori e altri classici?
«Il rapporto dei ragazzi con i classici nella loro versione integrale è condizionata dalla lunghezza e difficoltà del linguaggio.
Funzionano invece bene le varie riduzioni.
In questi ultimi anni, una serie molto apprezzata è stata la collana “I Classicini” che ha riproposto anche Zanna Bianca, riuscendo a fare della forza degli intrecci e dei personaggi originali un testo ancora avvincente».
C’è un autore contemporaneo che ritieni abbia attinto dall’immaginario di Jack London?
«Tra gli stranieri sicuramente l’americano Gary Paulsen è tra coloro che hanno raccolto il testimone di Jack London.
Questo autore, infatti, ha raccontato il rapporto tra uomo e cane, le grandi distese naturali, la sfida dell’uomo con la natura, in libri quali “Al limite estremo”, “Il figlio del ghiaccio,” “La cerva bianca”, “Nelle terre selvagge”, “Oltre il confine”».