Romano Borghi, il macellaio gentile

I suoi ricordi per noi... e noi lo ricordiamo così

Romano Borghi, conosciuto da tanti correggesi, se n’è andato, improvvisamente, il 12 agosto scorso. Quel cuore, che gli dava da tempo qualche sofferenza, me lo ha aperto con piacere e con grande generosità, solo sei giorni prima, nel suo giardino di casa, circondato dall’affetto della moglie Carla, delle figlie e delle nipotine. Così, seduto sull’omnibus dei ricordi, rilassato e sereno, mi raccontava di quel bue grasso che fece fotografare davanti alla sua storica macelleria in Corso Cavour.

 

Che tempi, che carni, che popolo, che buoi, vero Romano?
«Avevamo la macelleria di fronte alla casa parrocchiale, dove adesso c’è il Filosso. Poi, per esigenze di spazio, abbiamo acquistato anche il locale di fianco, che alla fine abbiamo venduto a Ligabue. All’inizio eravamo ai Cappuccini».

 

Com’era giunto a fare questo mestiere?
«Lo faceva già mio padre Aldo; dato che, se c’era da studiare, mi venivano tutti i mali addosso, ho preferito mettermi presto a lavorare. Non fu facile aprire una macelleria a Correggio, perché concedevano malvolentieri le licenze; gli altri macellai si lamentavano, eravamo in concorrenza».

Ricorda qualche nome?
«C’erano i Varini, i Prati, Bulèin, Panini Ildebrando, detto Burat».

 

Voi da dove provenite?
«Sono nato a San Martino il 28-2-1938, ma gatti non ne ho mai mangiati. I nostri avevano le orecchie lunghe. Siamo venuti nel ’51 dalla Gazzata; io facevo, in quegli anni, ancora l’avviamento a Palazzo dei Principi. La mia attività quarantennale in macelleria inizia nel ‘54 e termina nel ‘95».

 

Come vi procuravate gli animali?
«Per acquistare gli animali si andava alle fiere o al mercato a Modena o dai contadini. I grossi buoi, come quello della foto, ce li portava su dalla Romagna un signore, quello era un vero signore, e venivano macellati in via Carletti, nel mattatoio comunale di allora. Noi li porzionavamo secondo i vari tagli e, dopo aver rimosso il grasso in eccesso, i tendini e le parti indesiderate, in parte si conservavano nelle celle frigorifere e in parte si esponevano, etichettati per la nostra clientela, la migliore del paese vorrei sottolineare, che distingueva bene la noce, il fiocco, lo scamone e il controfiletto per fare il roast beef. La nostra carne era ottima, ma non si può sempre accontentare tutti. Una signora, di quelle di una volta, veniva a far la spesa: macinato, filetto di vitello, piccioncini, però si lamentava che la carne era dura. Allora sa cos’ho fatto? Una giornata vado su in colombaia e prendo un vecchio colombo forestiero, che aveva dieci anni, come si leggeva dall’anellino. L’ho pulito e glielo ho dato. Dopo tre giorni torna e dice: “Ma cosa mi ha dato?! Son tre giorni che bolle e non s’è ancora cotto!” Da quel giorno non si è più lamentata»

 

Oltre che di tanti coltelli, allora, era fornito anche di tanta pazienza?
«In un esercizio pubblico ci vuole molta pazienza. Occorre essere gentili, avere la battuta pronta, saper consigliare su modalità e tempi di cottura.  Avevo un fratello, che aveva iniziato anche lui con nostro padre, ma non era paziente. Poi è diventato maestro, però temeva di strangolare qualche bambino agitato; allora ha avviato un allevamento di suini. Ma, a proposito di pazienza, avevo una signora molto economa, che in un etto di carne mi chiedeva di farle trenta fettine; le tagliavo a mano, sottilissime. Un giorno d’inverno gliele porto e lei mi dice di accomodarmi e di scaldarmi; la stufa, una Becchi bellissima, era spenta e il gatto ci dormiva sopra: faceva proprio economia! Una attenzione particolare la dedicavamo alle norme igienico-sanitarie, mantenendo sempre pulita la zona di lavoro e gli strumenti del mestiere».

 

Scusi l’indiscrezione, Romano, ma mi risulta che lei andasse al macello di via Carletti anche per altri motivi…
«Ah, ah, ah, è lì che son rimasto fregato: ho conosciuto Carla, mia moglie! No, scherzo, ero contento e abbiamo avuto quattro figli, due femmine e due maschi: Matteo, Margherita, Gabriele e Maddalena. Poi ho anche due nipotine, Giorgia e Marta, che sono bellissime: assomigliano al nonno, vero? Il negozio andava bene negli anni sessanta, le cose cominciavano a girare, le famiglie consumavano più carne, e non solo la domenica. Poi c’è che le carni di una volta erano molto più buone; gli animali mangiavano erba, fieno, crosca e malghet, non farina di pesce. Quelle carni là noi ce le sogniamo!»

 

La sua signora, Carla, l’aiutava in negozio?
«Certo, era alla cassa coi suoi librettini. I clienti più affezionati e benestanti avevano il loro libretto e lasciavano da pagare dicendo: “Segni”. E pagavano ogni tanto. La cosa non ci dispiaceva, perché significava che sarebbero tornati da noi e così attiravano la clientela. Ma c’erano anche quelli segnati nel libro nero, che si dimenticavano, diciamo così, di pagare; ho ancora i nomi senza la riga sopra: vuol dire che non hanno mai pagato e non ha mai pagato per loro nemmeno … Segni, il presidente della Repubblica eletto nel ‘62. Avevo anche un garzone, soprattutto nel periodo estivo, finite le scuole; così dei ragazzi imparavano un mestiere e portavano a casa un po’ di carne. Ne sono transitati una ventina, compreso Felice Tavernelli, che ha fatto poi carriera in televisione.  C’è ancora, è come Pippo Baudo, non va mai giù di moda.

Portavo la famiglia in vacanza a Cesenatico. A me non piaceva il mare; in agosto preferivo stare a Fazzano, nella casa di campagna, con le mie galline e gli altri animali.

Poi, come le cose hanno iniziato ad andare meno bene, ho detto basta: era il 31 dicembre 1995. Erano nati i supermercati, con tutto quello che ne è conseguito»

Ringrazio e saluto Romano Borghi per questa piacevole conversazione.

Senza immaginare che di lì a pochi giorni non avrei avuto più la possibilità di rivederlo. Posso immaginare, invece, che lassù sia salito senza portare rimpianti. Un abbraccio affettuoso alla sua bella famiglia.

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