Caldo giorno di fine estate, primi anni ‘90, campo sportivo al club “la Stalla” sede sociale del Plously F.C. Partita amichevole tra le due squadre del Circolo: i “vecchi” (ammogliati), ma ancora competitivi (storica divisa da Ape Maya a strisce gialle-rosse-blu di diversa ampiezza a seconda del giro-vita) contro i “giovani” (scapoli) della squadra-A del Circolo (divisa che declina in modo fighetto i colori sociali: metà gialla e metà rossa con maniche blu).
Ci si può chiedere: cosa avrà di speciale una partita amichevole, di amatori, per giunta interna ad un circolo, di trent’anni fa? Assolutamente niente. Eppure chi c’era, se c’è anche oggi, la racconta sempre agli altri e gli altri la raccontano a lui, e così di seguito.
Dicevamo: la partita. Si parte inderogabilmente alle ore 15 come in serie A; gli atleti con diversi stati di preparazione, di peso e di età sono schierati al centro del campo sociale, regolare e ben segnato. Folto pubblico ai bordi. I capitani si stringono le mani, si parte.
Primo quarto d’ora affrontato con grande volontà da entrambe le parti, ma il centrocampo del Plously – ammogliati, fin che le forze reggono, è decisamente superiore. Lo schema fondamentale prevede che il mai dimenticato Angelo “Benedicto” Saccani con lanci illuminanti inneschi Moschino Pitèlo (in famiglia lo chiamano Vittorio Grillenzoni), che a sua volta faccia viaggiare sulla fascia l’ala sgusciante Marèina (detto anche Primo Righetti). La squadra avversaria deve rifugiarsi ripetutamente in fallo laterale o in calcio d’angolo. Ogni volta c’è lo sbandieramento dell’impeccabile segnalinee Sante Pergetti. Solo che ad un certo punto il segnalinee si annoia. Siamo a metà del primo tempo, il pallone è finito ancora una volta in angolo e lo sgusciante Marèina si aggiusta il pallone per il solito cross in area, nel mezzo della bolgia formata da tutti i giocatori. Prende una lunga rincorsa scrutando l’area e carica con tutte le sue forze il destro. Pergetti, facendo finta di niente, con la bandierina gli sposta il pallone, quel tanto che serve per mandare a vuoto il calciatore, il quale calcia l’aria e poi le zolle, s’impunta, fa un tuffo carpiato con atterraggio sulla schiena. Tutti ridono, anche il guardialinee burlone che, fin da quando erano insieme al servizio militare, è solito angariare il suo amico Marèina. Marèina non ride. Viene trasportato di peso fuori del campo mentre urla per il dolore e bestemmia furiosamente. Una normale contusione? No, il giorno appresso, sotto i portici, il Righetti con l’arto ingessato cercava il Pergetti per rompergli le corna con le stampelle, ma il guardialinee nel frattempo si era reso irreperibile.
La partita intanto riprende: la squadra degli ammogliati, orfana dell’infortunato, è improvvisamente spuntata. E spompata. Un caotico rimbalzare del pallone da una difesa all’altra. In questa nuova fase della partita giganteggia il solido Carèna, attempato pilastro del Plously – Ammogliati. In realtà mai Carèna ha giocato così bene: rinvii tempestivi, passaggi di straordinaria finezza, traiettorie impossibili. Compagni e avversari restano sorpresi, perché Carèna è sempre stato famoso per la sua grezza irruenza. Improvvisamente, un campione è sbocciato sul far della pensione.
Si arriva al riposo, in riva al fossato. Tutti sono stravolti. Ma uno spettatore si accorge che qualcosa non va nei piedi di Carèna: si scopre che ha invertito le scarpe. Infatti puntano verso punti cardinali opposti. Toh, dice Carèna, “a min sun gnan acort, a stag da Dio”. E per tutta la partita continuerà con le scarpe alla rovescia giocando la partita della vita.
Il riposo è un vero riposo: gente ansimante stravaccata per i prati, lamenti un po’ ovunque, bevande a gogo. É il momento di gloria di “Yoda-che-la-forza-sia-con-te”. Yoda praticamente era in grado di giocare in ogni ruolo, insomma serviva da tappabuchi per sostituire l’assente di turno. Ma diventava il personaggio principale negli spogliatoi. Era un impeccabile infermiere all’ospedale, professione che rappresentava la sua credenziale sui campi della provincia. Qui era riconosciuto maestro nei massaggi e nelle pozioni magiche. Quando venivano a meno le forze interveniva lui col suo misterioso miscuglio di colore marrone. É leggenda il caso di quel calciatore (sempre amatore) che si scolò tutta la bottiglietta di Yoda e lo trovarono la mattina che correva per i campi di Correggio fin dal pomeriggio precedente per smaltire l’eccesso di adrenalina artificiale.
Nella seconda frazione di gioco le forze cominciano a calare, si intravedono i primi sintomi di degrado cognitivo, l’ossigeno fatica ad arrivare alla “centralina di comando”. Allora la partita pian piano si trasforma in una guerra psicologica, ad ogni contrasto si stramazza a terra colpiti a morte, le parole escono in libertà, le provocazioni verbali hanno preso il posto dei calci negli stinchi (che avrebbero comunque bisogno di una performance atletica). La vista di tutti si è molto appannata, le righe che delimitano il campo vengono bellamente ignorate, qualcuno in un spasimo estremo di energia prosegue la corsa fin sotto la vigna adiacente al campo e deve essere fermato con urla dai compagni di squadra e ricondotto in campo dagli spettatori. Calciare il pallone è diventato un optional.
Nessuno oggi ricorda il risultato di quella partita, quanti furono i goal, quanti gli infortunati e le amicizie compromesse. Ma, come ho detto, chi c’era la racconta sempre agli altri e gli altri la raccontano a lui. Se ci sono ancora.
Perché di quella compagnia di amici dalla pancetta incipiente o matura, dalle gambe che cominciavano a ricordare i polli d’allevamento, alcuni ora non ci sono più. Inutile ricordarne qui i cognomi, i loro nomi da battaglia ricorrono sempre nelle narrazioni della partita. Anzi, grazie a quella mitica partita rimangono per sempre nel ricordo e nella memoria del paese.
Noi crediamo che ora siano sui campi elisi, cioè sui campi di calcio del Paradiso, e siano lì a rincorrere una palla, con Angelo “Benedicto” Saccani con lanci da “Dio” e Yoda che prepara l’intruglio miracoloso di cui dicono sia ghiotto anche San Pietro. Perché se in Paradiso si gioca a calcio, ne siamo sicuri, lo si fa in grande amicizia, senza inganni e senza dargli troppa importanza. Come facevamo noi a quei tempi.