Chiacchierando in bar o per la strada, capita di sentire intercalari poco fini, ma che sono ormai entrati nel nostro patrimonio.
Nessuno si meraviglia di sentire esclamare “cazzo!”.
Ma se io pronunciassi la parola “vagina”, quante persone si volterebbero, un po’ infastidite e sicuramente incuriosite?
Eppure è una parola come un’altra, giusto?
Anche poco volgare, anzi, molto precisa. Vagina.
È un nome strano, perché designa una parte del corpo femminile che non è solo parte anatomica come tutte le altre, ma la vera e propria origine dell’esistenza.
Proprio per questo, forse, abbiamo difficoltà a chiamarla come si dovrebbe.
Ci sono però alcune ragazze, che si esibiscono in provincia di Reggio Emilia, che non hanno alcun timore a chiamare la vagina con il suo nome.
Sto parlando del gruppo Le Mafalde, nato cinque anni fa davanti ad uno spritz.
Renata, Marianna e Giorgia si sono conosciute ad un corso di teatro d’improvvisazione.
Poi, una sera come tante, Renata ha assistito ad uno spettacolo che l’ha illuminata. Sto parlando de I Monologhi della vagina, serie di monologhi recitati da donne e tratti da un lavoro di Eve Ensler. «Abbiamo scelto il nome “Mafalde” pensando al fumetto di Quino: perché siamo spettinate, arrabbiate e polemiche come lei», mi dice Renata, davanti ad un the verde e nel centro di una Reggio Emilia semideserta per il caldo.
«Abbiamo deciso di portare lo spettacolo nella nostra provincia perché una cosa del genere non era mai stata fatta in queste zone. Siamo partite recitando in prima persona, ma pian piano abbiamo deciso di coinvolgere sempre più donne, perché il bello di questa esperienza è proprio questo. Donne che un mese prima non si conoscevano nemmeno si trovano a chiamarsi “vagine” quando si incontrano e riconoscono per strada. Attraverso questo spettacolo si crea una chimica, una complicità inimmaginabile».
Eve Ensler, drammaturga statunitense, nel 1996 ha raccolto le testimonianze di duecento donne, chiedendo loro di spiegare cosa significasse essere donna e di raccontare il loro modo di vivere la femminilità.
Sono uscite storie divertenti, come il trauma dei peli e della ceretta per estirparli o quello del ginecologo, con tutti gli strumenti assurdi che usa per visitarci. Ma quelle donne hanno raccontato anche esperienze dolorose, di stupri e violenze subite.
Eve ha cominciato a rappresentare lo spettacolo in prima persona, ma in seguito ha lasciato che compagnie sparse in tutto il mondo facessero proprio il testo.
«Non ha mai chiesto alcun diritto d’autore. Le condizioni per mettere in scena i Monologhi sono poche, ma vanno tassativamente rispettate. Innanzitutto, i Monologhi vanno rappresentati entro febbraio (un escamotage per aggirare i diritti d’autore).
Poi, sul palco devono esserci solamente donne. O meglio, possono esserci uomini, ma devono essere partner silenziosi, dunque non parlano mai. Infine, il ricavato dello spettacolo va devoluto interamente ad un’associazione che si occupi di sostegno alle donne in varie situazioni di disagio, anche se una piccola parte va all’organizzazione mondiale del V-day».
Il V Day – One billion rising, mi spiega Renata, si compone di una grande manifestazione in febbraio, in cui si scende in campo contro la violenza sulle donne.
In più, comprende il momento in cui i Monologhi vengono interpretati.
«Noi siamo volontarie, lo facciamo metterci in gioco per lanciare un messaggio importante e per sostenere l’associazione Non da sola, che si prende cura di donne vittime di abusi. In poche parole, non otteniamo nessun guadagno e realizziamo le scenografie con oggetti che abbiamo in casa» ci tiene a sottolineare Renata.
Lei e le altre organizzatrici fanno i mestieri più disparati, così come sono disparati i mestieri e le età delle ragazze che scelgono di mettersi in gioco.
Fra l’altro, l’anno scorso le Mafalde sono riuscite a coinvolgere nel loro progetto anche Antonella Lo Coco, la cantante lanciata da X Factor. «Non ci sono obblighi, ma molta libertà, anche perché il gruppo si rinnova ogni anno grazie a persone che vogliono aggiungere qualcosa di proprio. Alcune donne provano e poi magari non se la sentono di partecipare al vero e proprio spettacolo come attrici.
Ma rimangono lo stesso a sostenerci e ad aiutarci in tutti i modi.
Anche quando scelgono di recitare, chiediamo loro se si sentono portate più per un pezzo tragico o per uno “comico”.
Ma per assegnare i monologhi ci basiamo anche sull’età delle partecipanti: una donna più matura è sicuramente più indicata per rappresentare il monologo che parla del parto, che in effetti è il punto culminante dello spettacolo, perché lì il corpo femminile arriva alla sua pienezza.
Poi, indubbiamente ci sono pezzi più difficili, come quello che parla degli stupri di guerra in Bosnia o quello che parla di una violenza sessuale subita da una bambina. Sono storie che ti lacerano dentro». Il pezzo più ambito? «Sicuramente quello che parla di Bill. Bill è il tipico uomo senza qualità, che veste di grigio e non è per nulla misterioso. Ha però un pregio, che è quello di far riscoprire l’erotismo e il piacere di fare sesso ad una donna»
Alla fine della nostra chiacchierata, chiedo a Renata se lei o le altre ragazze abbiano mai subito attacchi. «Qualcuno ci ha accusato di essere troppo esplicite, scandalose, ma in genere chi fa queste dichiarazioni non ha mai visto lo spettacolo. Siamo molto sostenute, anche dagli uomini, che si sentono coinvolti in un modo contrastante dalle nostre serate. Dopotutto, sono messi in qualche modo sotto accusa.
Una volta, scesa dal palco, mi è capitato di essere fermata da un ragazzo che mi ha detto di aver pianto. Questo complimento mi ha completamente ripagata delle offese e dei pregiudizi. Ma chiunque venga a vederci non può rimanere indifferente: attraverso le nostre voci cerchiamo di offrire una speranza alle donne che soffrono chiuse nel loro silenzio».