Perché una rubrica ortografica su Primo Piano

Come Parliamo

Viviamo negli anni della post verità, ma anche del post italiano. La lingua che con tanta difficoltà ha preso forma nei secoli è oggi preda delle più fantasiose storture. Da un lato, è proprio questa la bellezza della lingua viva: poter venire manipolata da chi la utilizza, così da rimanere magmatica e in movimento.
Ha dunque il privilegio di essere lo specchio dei tempi.
Ma se da un lato questo ci permette di aggiornarla e di avere gli strumenti linguistici per confrontarci con il resto del mondo, la nostra lingua corre il pericolo di diventare vittima di un involgarimento.
E non uso il termine nel senso di vulgus, popolo: al contrario. Perché sono proprio i top manager, gli AD, i giornalisti, a rendere la nostra lingua più spoglia e povera di quello che in realtà non sia.

Con la scusa di internazionalizzare il linguaggio, assistiamo ogni giorno a improbabili fusioni fra l’italiano e quella che sta ormai assurgendo a ruolo di pan-lingua, un inglese totalmente semplificato.
Soprattutto, queste espressioni, che in alcuni campi sono sicuramente necessarie per spiegare al meglio un fenomeno, sono solitamente utilizzate senza il minimo criterio. Gli anglicismi vengono disseminati a mani piene senza che nemmeno l’oratore si metta a pensare che probabilmente esiste già una parola italiana per indicare esattamente quella contingenza/evento/oggetto.
Anzi la evita: sarebbe un provinciale.
Il giornalismo ha cercato di adeguarsi alla velocità della nuova informazione.
Titoli sempre più stringati, stringhe nominali che dovrebbero invitare all’approfondimento, ma che di fatto si fondono in una marmellata di notizie vere e false senza che l’utente abbia voglia di andare oltre le poche parole di apertura.
Si cerca di abbreviare ulteriormente per mezzo di parole inglesi, del tutto a sproposito.
Nascono così il Muslim ban, la Brexit, i Panama papers, i titoli infarciti di hipster e hashtag, le pubblicità fatte di open space e living.

Sicuramente un grande impulso a questo impoverimento è dato da internet e dai social network: l’hashtag (la spiegazione che accompagna una foto e le permette di essere accomunata ad altre dello stesso genere) è ormai un metodo di espressione comune a molti giovani.
Twitter con i suoi 140 caratteri (andati parzialmente in pensione il 19 settembre 2016) costringe alla brevità, che non sempre può essere un pregio.
Dalla tecnologia derivano anche tutta una serie di aggettivi e di verbi: shazzammare significa individuare un brano musicale tramite un’applicazione, essere friendzonati è invece sinonimo di essere rifiutati da un’amica del quale eravamo segretamente innamorati.
È questo il linguaggio quotidiano dei ragazzi delle scuole medie e superiori, e non ci sarebbe nulla di male, se esistesse la coscienza, da parte loro, che queste espressioni non possano essere utilizzate in ogni contesto.
Pochi giorni fa è stata resa pubblica la lettera di 600 professori universitari, il cui contenuto è destinato a far discutere e (spero) riflettere: le matricole universitarie sono scarse nella scrittura, non riescono ad esprimersi a dovere, commettono errori grossolani e non riescono a comprendere testi complessi.

Da questa breve riflessione e dalla mia limitatissima esperienza in campo scolastico è nata l’idea di una rubrica di grammatica su Primo Piano, un piccolo prontuario che risolva dubbi e approfondisca argomenti.
Aspetto vostre mail (da indirizzare alla redazione) per eventuali proposte e domande!

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