Paolo gherardi, nipponico edochiano

Il Giappone visto da un correggese, manager a Tokyo

Lo sapevate che gli abitanti di Tokyo si chiamano edochiani?
Bene, uno di questi è correggese: Paolo Gherardi. A Correggio, dove lo incontro durante la pausa agostana, ha genitori e parenti. Cinquantaquattro anni, laurea in ingegneria aeronautica al Politecnico di Milano, previa maturità classica nel nostro Rinaldo Corso, Paolo vive a Tokyo dal 2015. Nella capitale nipponica c’è il quartier generale della ASAHI GLASS CORPORATION (AGC), una multinazionale del vetro onni-uso, che vanta 52.000 dipendenti, filiali in tutto il mondo e un fatturato di 1.500 miliardi di yen (12 miliardi di euro). L’ingegner Gherardi lavora lì, in un grande palazzone di vetro (ovviamente), come manager del ramo sicurezza e qualità. A Correggio vanta molti amici, compagni di avventure e di libertà dei primi anni ottanta. Chitarra basso nel gruppo post punk dei “Dark Age” con Fabrizio Tavernelli, Lorenzo Favella e Paolo Cico Lazzaretti e birre in allegria, nei tavolacci del Circolo “Fra i Quali”. In quel tempo va forte l’America. Il fascino dell’oriente si ferma a Katmandu. Sushi, Mitsubishi, Mazinga son parole di là da venire.

A Paolo Correggio sta comunque un po’ strettina. Dopo la laurea, arriva l’occasione per sganciarsi. Il primo lavoro è già per Asahi Glass, a Torino. Poi c’è Bruxelles, dove incontra la moglie Suyapa. Dopo un ritorno temporaneo a Reggio presso altre aziende c’è il riaggancio con la multinazionale del vetro, che lo vuole in Cina per tre anni e infine lo chiama a Tokyo nella sede principale.

 

Una scelta di vita impegnativa, no?
«Sono soddisfatto. Nessun pentimento» mi dice Paolo. «A Tokyo ci troviamo bene come famiglia. Le mie figlie, Marta e Carla, adolescenti, frequentano una scuola internazionale in inglese. Là non manca nulla. Neanche il terremoto… che si combatte con tecniche costruttive d’avanguardia e con una grande opera di formazione e prevenzione, condotta ovunque con uno scrupolo certosino esemplare».

 

Qualcos’altro ti ha “scosso” laggiù?
«Lo spirito di comunità così inculcato nel popolo giapponese. Effetto di un lavorìo incessante di tradizione, storia, cultura, orgoglio nazionale. Prima viene il bene della comunità, poi il bene personale. Lo vedi nella vita quotidiana, come l’ordine nelle code, il silenzio nella metropolitana, la puntualità negli incontri, la pulizia nelle strade, il rispetto millesimale degli orari, la cortesia nei pubblici uffici, nei bar, nei negozi, nei taxi. Dietro l’usanza dell’inchino, che a noi europei desta qualche compatito sorriso, c’è la cura per la forma nei rapporti sociali. C’è il senso della disciplina, del dovere civico. Il giapponese “vive in divisa” per tutta la vita: casacchina per gli scolari, kimono per occasioni speciali, tuta e giacca per operai e “salary-man”, i colletti bianchi, delle multinazionali. La divisa è il segno della fedeltà».

 

La fedeltà al lavoro e all’azienda che te lo dà è davvero così totalizzante come si legge?
«Sì. Io, come europeo, godo dello status di “espatriato occidentale”, che mi consente di rientrare a casa alle 18.30 e sedere a tavola in famiglia davanti a un piatto di spaghetti o ad una paella. Per i nativi giapponesi non è così. Dodici ore in ufficio, poi dopolavoro e cena con i colleghi, l’ora di treno per il rientro, gli straordinari regalati all’azienda, le ferie ridottissime: la famiglia diventa la comunità più esile, stiracchiata, spesso in crisi. Di qui il ruolo ancora prevalentemente domestico della donna, il calo impressionante della natalità e l’invecchiamento di forza lavoro e società. Il Governo del premier Shinzo Abe sta cercando di porvi rimedio con varie misure: incentivazione del lavoro femminile, aiuti alle famiglie, gratuità degli asili, obbligo di riposo al lavoro con giornate dedicate a scopi vari e maggiore apertura agli immigrati. Ma con pochi risultati. Hai così una società organizzatissima, ma statica, rigida, in crisi di crescita. C’è poi da dire che il ritmo di lavoro è meno stressante che in Europa: ci si dà il tempo necessario per approfondire e fare le cose bene. Un abisso rispetto alla frenesia lavorativa che in Cina ho provato sulla mia pelle. Ti spieghi cosi perché la Cina ha surclassato il Giappone nella crescita e nel PIL, ma anche perché i cinesi continuino a venire a Tokyo per comprare rice cookers (vaporiere cuoci-riso) di buona qualità, pur disponendone di molto più economiche in Cina».

La vita in una megalopoli di 35 milioni di edochiani non deve essere semplice. Come ti trovi in quell’immenso oceano di folla metropolitana?
«Ti dirò che nella city del governo e degli affari si vive più che bene. L’inquinamento di un tempo non c’è più, domato con le tecnologie per il riscaldamento, per l’incenerimento dei rifiuti e con una massiccia politica del trasporto pubblico. Per strada vedi solo taxi. A nessuno passa per la testa di muoversi con l’auto personale. Treni, bus e metropolitane garantiscono frequenze per noi impensabili e velocità elevate. Non aspetti mai più di due minuti un mezzo pubblico. Si cammina per strada in assoluta tranquillità. I bambini fin dall’età di sei anni vanno a scuola da soli con la metro e poi a piedi. Neve, vento, solleone che sia: zainetto, galosce, ombrellino e casacchina. Hanno un cellulare al collo per emergenze e tanti punti di assistenza nel tragitto che espongono la vignetta “SOS amico”. Tokyo è multiforme. In quel labirinto di torri vertiginose e insegne multicolor trovi angolini nascosti, inaspettati. Una vegetazione rigogliosa fa da velo ad un tempietto shintoista o buddista. Paradisi di contemplazione. Contraddizioni all’italiana, che ti fanno sentire a casa».

 

Educazione, infrastrutture, opere pubbliche sono gli ingredienti del modello Tokyo. E i giovani come se la passano? La sicurezza è garantita?
«Il disagio giovanile esiste con le annesse conseguenze comportamentali, come il noto hikikomori, il fenomeno di autoisolamento, di ritiro dalla vita sociale. Ma, in generale, i giovani sono omologati con i nostri, non vedo differenze. Hanno i loro ritrovi, i loro riti fatti di musica, di pub, di movida, di sport (molto diffusi il golf e il baseball) di mode altalenanti di consumo e di vita. Shibuya è un quartiere di Tokyo dedicato al divertimento e frequentato dai giovani, dove c’è di tutto, con locali di ogni genere per giorno e notte. Per la sicurezza, io non sento che sia un serio problema. Ho vissuto esperienze personali di smarrimento di oggetti importanti, concluse sempre a lieto fine. I furti e le aggressioni non sono notizia frequente. La cultura, la buona educazione, il rispetto per il prossimo sono antidoti potenti contro la criminalità di strada.

Tokyo è stata eletta per il 3° anno consecutivo come la città più sicura del mondo».

 

E l’Italia? Ti manca?
«Il nostro Paese gode di buona reputazione tra i giapponesi. Il loro diffuso buon livello di cultura li porta ad ammirare ed emulare l’italian way of life. Molti giovani vengono a studiare nelle città italiane: la musica, l’architettura, la pittura, la storia sono materie molto gettonate. L’italian food prende piede a Tokyo e dintorni. Comunque le bellezze naturali ci sono anche laggiù: l’isola di Okinawa è fantastica, con le sue spiagge tropicali, e non è la sola. Il monte Fuji, l’imperatore naturale del Sol levante, ti accoglie con i suoi stupendi dintorni. Insomma, volendo e potendo, non te la passi male. Se poi proprio mi prende la nostalgia per Correggio, ricorro al Cha no yu, la cerimonia del tè, un rito zen che affascina e che riporta all’essenziale. Lo faccio in compagnia e mi rivedo sotto i portici tra i vecchi amici di sempre».

Miracoli della meditazione zen! Grazie Paolo, amico di Correggio e del mondo.

Arrivederci.

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