Indago un poco sullo sviluppo del lavoro di sartoria, che fino a un secolo fa si fondava su pratiche piuttosto empiriche e vengo a conoscenza di una svolta epocale avvenuta nel taglio dei vestiti, quando, abolite le esagerazioni ornamentazioni e gli inutili rigonfiamenti, gli abiti si fanno più semplici, permettendo una più ampia libertà di movimenti.
Nella nostra provincia le basi di un vero metodo sartoriale, basato su misure prese direttamente sulle persone, e la costruzione del “modello”, risalgono agli anni venti e, in particolare, ai volumetti di Giulia Maramotti. Da allora corpetti, giacche, gonne, scollature, maniche e le loro innumerevoli variazioni non hanno più avuto segreti.
L’argomento riscuote un clamoroso consenso anche in Norma Braglia, che sembra aver avuto da sempre la vocazione sicura della sarta. Nata a Fontana di Rubiera e terminata la scuola primaria, eccola inforcare la bicicletta per recarsi a Reggio con qualunque tempo, per cinque lunghi anni, perché addentrarsi nel difficile campo sartoriale ed essere in grado di conoscere e muovere le stoffe, cambiare le linee, aggiungere fantasie e “capricci” con stile ed eleganza non è cosa che si improvvisa.
«Andavo a Reggio anche con la neve e quando cadevo mi rialzavo. Oggi queste vite non si fanno più! A Fontana, verso Campogalliano, c’era una specie di cappella con due gradini e lì si andava a pregare. Io invece andavo lì a cucire i vestiti dei miei bambolotti. Allora, andavo da una sarta e guardavo quello che faceva; imparavo molto a guardare e poi a copiare i modelli, anche dai giornali e dalle riviste di sartoria. Spesso la mia mente li cambiava: facevo schizzi e coloravo modelli che poi avrei realizzato. Infatti, iniziata l’attività, venivano da me tanti clienti. Mi sono sposata a Stiolo, a diciotto anni, con Leo Incerti. In seguito vennero da me i migliori clienti, cercavano il modello bello, importante. Sapevano aspettare un cappotto anche un anno!»
Ho visto anche abiti da sposa tra questi disegni…
«Sì, ho confezionato diversi abiti da sposa, molto ammirati; tanti cappotti, spesso col pelo. Ne ricordo uno nero di una signora di Milano, col pelo tutto intorno e poi faceva il godet» (a godet: il taglio di sbieco che crea l’aspetto ondulatorio di una gonna).
Oggi praticamente non si commerciano più capi col pelo, mentre allora se non c’era la pelliccia, un cappotto quasi non poteva dirsi tale!
«Andavamo a Reggio a scegliere i tessuti per le gonne di velluto, la blusa di organza, la camicetta di chiffon, di seta, di jersey. Dopo ho cominciato a vendere i tessuti. Infine tenevo i capi già fatti, perché tutti li volevano subito: e come potevo fare subito? Allora ho iniziato col pret-a-porter. Mi rivolgevo a Max Mara, ma, abituata a rifinire personalmente i vestiti, ne avrei voluti rimandare indietro molti. Intanto ho avuto due belle bambine: Anna e Rita. Nel ‘68, dopo la morte di mio marito, ho smesso di vendere le scarpe del negozio di mio fratello. Con un nuovo arredamento, nasce il 12 luglio, al n. 44/E del Palazzo Bellelli, “Norma Boutique”, con l’inserimento delle prime collezioni su campionario e la vendita al dettaglio di total look e di accessori donna».
Ma la storia continua, perché, con la ristrutturazione del Palazzo Bellelli, il negozio si trasferisce al n. 27/B di Corso Mazzini, sede attuale e diventa “Norma abbigliamento donna”. Dal 2 gennaio 1989 entra nella conduzione familiare del negozio la figlia Rita Incerti e dall’8 febbraio 2002 ne diventa titolare.
Chiedo ancora qualche spiegazione a Norma sulle paramonture (il rivestimento anteriore interno di giacche e cappotti per creare i revers), le riprese (piccola piega cucita), i sovrapposti (spacchi con tessuto raddoppiato), gli sproni (pezza di tessuto che raddoppia la copertura delle spalle) e gli sparati (parte anteriore della camicia che resta in evidenza dalla giacca).
E lei con pazienza mi mostra tanti disegni, sottolineando l’impegno del cucire tutto a mano o con la Singer. «E le passamanerie, e gli abiti con le frappe, e il sopraggitto (punto sartoriale usato per le rifiniture)?! Anche le asole si facevano a mano. Io ho un cognato prete; ogni vestito ha trentatré asole. Una volta gliene ho fatti tre di abiti: novantanove asole tutte a mano! Meglio le asole che lavorare in fabbrica; molte della mia età andavano in fabbrica, ma io ho sempre pensato che non ci sarei mai andata. Mia madre andava in risaia… a me piaceva fare le mie cose, non quello che mi dicevano: in fabbrica non c’è niente di creativo».
Cara signora lei ha proprio ragione; grazie, ma intanto si è fatto sera. Norma abita vicino, ma credo si fermerà ancora un poco in negozio, la sua seconda casa… Mi corregge: «La prima direi!»