Non ti pago… e la trappola dell’illusione

In un’intervista Luigi de Filippo una volta disse: «L’umorismo è la parte amara della risata […] Esso è determinato dalla delusione dell’uomo che è per sua natura ottimista».

Questo umorismo, che lascia in bocca un po’ il gusto dell’amaro, lo si ritrova sempre nelle sceneggiature di De Filippo.
Sono spassose, non per niente si tratta di uno degli autori teatrali più amati e rappresentati, ma la risata spontanea che provocano non riesce mai a distendersi del tutto.
Questo, personalmente, mi è successo anche con Non ti pago, l’ultima commedia andata in scena all’Asioli il 31 gennaio, con replica il giorno 1 febbraio, e portata in scena dalla Compagnia di Teatro di Luca de Filippo, fondata appunto da Luca, il figlio di Luigi, scomparso nel 2015.

 Il protagonista Ferdinando Quagliolo, interpretato da un convincente Nicola di Pinto, vive sperando di fare una quaterna al lotto, ed è talmente intrappolato dentro il suo sogno di vittoria che, quando Mario Bertolini, un suo dipendente nonché pretendete della figlia, indovina i quattro numeri, gli ruba il biglietto e si rifiuta di renderglielo. L’uomo è convinto che la somma del montepremi tocchi a lui, in quanto i numeri vincenti sarebbero stati suggeriti a Mario, in sogno, dal padre defunto di Ferdinando. egli sostiene che lo spirito di suo padre avrebbe commesso un involontario scambio di persona recandosi per errore nella vecchia abitazione della famiglia Quagliolo dove ora risiede il giovane Bertolini.

Nasce così una lotta in cui tutti, famigliari e non, si prodigano per far ragionare il protagonista e convincerlo a rendere il maltolto, e nel corso della quale si sviluppa la vicenda con tutta l’originale comicità di De Filippo.
Ma è proprio il trincerarsi del protagonista nella sua scomoda posizione e nelle sue assurde convinzioni a fare, sì, ridere, ma a intristire allo stesso tempo.
Il suo atteggiamento punta i riflettori sull’immagine di un uomo solo, spesso in lotta con tutti, che vive di sogni infranti e cerca conforto nelle illusioni; di una persona animata dall’avidità, la cui voglia di denaro pare essere riuscita a mettere a tacere ogni altra virtù, buon senso e amore per il prossimo in primis.

Se al signor Ferdinando fosse dato un tocco in più di contemporaneità, se per esempio gli fosse anche solo messo in mano un cellulare, potrebbe divenire lo specchio di ognuno di noi, e i difetti che sono attribuiti al protagonista, uomo degli anni ’40, diventerebbero i nostri, uomini del 2000. Ed è proprio questo ciò che più lascia amareggiati: che nella storia, nella vita, e nelle storie di vita a teatro, i difetti paiono essere ferite che non guariscono mai, ma che vengono tramandate tali e quali di generazione in generazione.

La nota positiva, «il bagliore lucente», delle sceneggiature di De Filippo e della sua visione dell’uomo, è dato dal fatto che i protagonisti da lui creati finiscono sempre per liberarsi dalla trappola di cattivi pensieri e azioni malvagie, e si riscattano.
E se c’è speranza per loro, allora c’è una speranza per tutti…

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