Cosa è successo al Teatro Asioli nelle serate di lunedì 11 e martedì 12 marzo? Cosa ci ha proposto Elio Germano calcando le scene e lo spazio della sala? Un monologo? Un esperimento sociale? Un comizio politico? Alcuni spettatori sono convinti che l’ultima sia l’alternativa corretta, ma, vi assicuro, non si è trattato di quello: l’attore teatrale, cinematografico, nonché divo della tv, non è certo venuto a Correggio per manifestarci le sue idee politiche (che, tra l’altro, sono certa essere diametralmente opposte da quelle proclamate come da copione). Io direi che si sia trattato di qualcosa a metà strada tra le prime due alternative, ma se il risultato della piéce mi ha entusiasmata, quello dell’esperimento sociale mi ha invece lasciata sconcertata.
Già, perché il protagonista del monologo è un Germano le cui capacità interpretative sono indiscutibili. E infatti, l’attore romano è stato quanto mai convincente tanto come show man che, entrando dall’ingresso del teatro quasi fosse “il ragazzo della porta accanto”, resta in platea a dialogare amichevolmente con il pubblico, quanto come incitatore che, recitando il copione (ossia una riscrittura di Mein Kampf, fatta dallo stesso Germano con Chiara Lagani, in cui frasi prese a prestito dalla quotidianità vengono infilate fra le righe del proclama di Hitler) si infervora, lasciando intravedere, in modo man mano sempre più evidente, la fisionomia del mostro finale che quell’uomo qualunque diverrà.
Il protagonista dell’esperimento sociale invece era il pubblico, quel pubblico che ha applaudito Germano ad ogni nuovo luogo comune che egli denunciava, come da copione, sulla scena.
Ad un certo punto mi è parso evidente che noi spettatori ci trovavamo nel bel mezzo di un finto comizio di stampo fascista, ma la maggioranza del pubblico continuava ad applaudire. Ma chi applaudiva a cosa era difficile capirlo. Forse alla bravura dell’attore? O forse alla forza di persuasione dell’uomo carismatico e alle sue parole trascinanti? Tra l’altro, finti spettatori sedevano come incitatori in mezzo alla platea, ma alle loro grida di “Bravo!” si aggiungevano sempre altri applausi rendendo davvero impossibile capire dove finisse la finzione teatrale e dove iniziasse la vita reale.
D’altra parte era proprio questo lo scopo dello spettacolo: dimostrare come la realtà possa improvvisamente sfuggirci di mano e come le democrazie possano trasformarsi, sotto i nostri occhi, in qualcosa di imprevedibile e incontenibile.
Il non sapere perché e a cosa applaudisse la mia vicina di poltrona, ha generato in me uno sconcerto che ancora oggi fatico a dimenticare; temo, infatti, che il suo applauso fosse rivolto alle parole dell’uomo e non alla bravura dell’attore. Ciò significherebbe che l’esperimento sociale ha dato un risultato per me allarmante: i toni che inneggiano alle paure e ai sentimenti ostili stanno diventando sempre più attraenti, mentre la capacità di sostenere un dialogo empatico, quello capace di guidarci alla comprensione dell’altro anziché allo scontro, si sta riducendo drasticamente.