La rugiada della notte, addensata sulle tele dei ragni, evidenzia la loro malizia; è un mattino color malva.
Vado al caffè, affrettandomi a piedi verso il centro, col conforto dei colori autunnali e il fruscio delle foglie calpestate, quando mi sento apostrofare: «Ciao Rino!» (Rino è diminutivo di Rinaldi, naturalmente).
È Rodolfo: viso rubicondo, baffetti da moschettiere, cappotto una spanna sotto al ginocchio, cappello a tesa larga come il passatore. Professore di lettere in pensione e ora spesso topo di biblioteca, è impegnato da anni nella stesura ambiziosa e temeraria di quattro volumi che riguardano la storia di Prato: accidentibus!
Lo avevo lasciato a maggio che promuoveva un ciclo di incontri dedicati alla Grande Guerra di cui quest’anno cade il centenario.
Mi aveva parlato dell’intendimento di illustrare in particolare la vita quotidiana al fronte, le dotazioni dei combattenti, le molteplici operazioni, corredandole di videoproiezioni e cimeli dell’epoca.
Rodolfo ha realizzato il sogno d’Orazio: casetta rustica, cibo sufficiente, e godimento di pochi amici. La leggera pinguedine che lo fascia sta lì a dimostrarlo.
Siamo stati compagni di scuola, grandi amiconi: lui, che mi sistemava la versione latina, in disegno si muoveva come uno scalzo sulle spine ed io con poche pennellate lo ricambiavo.
Mentre sprizzo buonumore come un analista austriaco, gli domando del suo scrivere su Prato: siamo già alle risaie e all’industria del truciolo, arrivata fino agli anni settanta (ma i F.lli Ruina di Villarotta smantellano il laboratorio solo nel 2002 !) e prima l’ultima alluvione del novembre ‘66.
Un mondo dietro le spalle, perso per sempre, fatto di famiglie di contadini, di barrocciai, di operai poveri ma solidali, oggi inquinati dalla paura.
Accenna ai migranti, ai furti nelle case, al porto d’armi; srotola discorsi federalisti, simpatizza con gli indipendentisti sparsi in Europa.
«Scusa Rodolfo, ma l’accoglienza? E l’assistenza? E la speranza di questi ultimi di riscatto, di sentirsi parte del genere umano?».
Io sono per il dialogo, non certo per armare le paure. Privilegio la forza della ragione alla ragione della forza. È la mia regola di vita.
Dopo un po’ non ho più pazienza per controbattere: la nostra amicizia vale di più e poi in politica i miei poli-pensieri spesso si azzuffano mentre affiorano per manifestarsi.
Meglio scrivere, ché un briciolo di fantasia la posseggo e qualche volta mi diverte usarla. Fingo allora di rabbrividire e porto il discorso su qualche compagno di scuola, che abbiamo perso di vista e su qualche ragazza desiderata allora; come Francesca che, quando scioglieva i lunghi capelli neri, ti faceva dentro uno strappo che durava tutto il giorno e anche di più.
«Ma tu Rino non cambi mai! Magro, la barba, tutti i capelli neri! Beh, devo proprio andare. Ciao Giancarlo, a presto!»
«Veramente mi chiamo Gian Paolo». «Ah, ecco: hai cambiato nome!».
Proseguo verso il bar incamerando immagini, odori, miraggi, per concedermi il piacere di un espresso fatto a regola d’arte: corto e forte, che metta di buonumore lo spirito, mentre il cane Giacobbe saluta una colonna d’angolo del porticato alzando la gamba.