Sudatissima l’intervista a Roberto Bedogni da Lemizzone. Schivo come i “veri talenti”.
Modesto fino a non credere al mio discreto abboccamento: «Mo va là… non mi sento proprio un tipo da articolo sul giornale» (sono le sue testuali parole).
Roberto avrà, come tutti, il suo tallone d’Achille, ma certamente ha un punto di forza: la moglie Rocio (rugiada, in spagnolo), nata a Lima (Perù), ma correggese di adozione e «molto fiera di esserlo».
È lei che lo ha convinto: in fondo, un’intervista è meno pericolosa di un raffreddore. Se la tua donna è convinta, tu, uomo, non puoi nulla, soprattutto quando ti senti dire «le nostre vite e storie professionali sarebbero state diversissime senza il nostro incontro».
Tutto comincia da Lemizzone.
Da lì partì Roberto, una decina di anni fa, con le idee ben chiare: sfidare a tutto campo le radiazioni nucleari.
Oggi, con una sessantina di pubblicazioni internazionali in bacheca, Roberto Bedogni è uno dei massimi e più ricercati esperti in materia.
In cosa consiste, Roberto, il tuo lavoro?
«La mia ricerca consiste nell’ideare, prototipare e testare nuove tecniche e nuovi materiali per la misura delle radiazioni nell’ambito della protezione radiologica e della medicina».
Sicuramente non è un lavoro molto comune. Da dove nasce questa tua specializzazione?
«Ho sempre amato la fisica sin dai tempi dell’ITIS, frequentato per i primi due anni a Correggio.
Il triennio in Energia nucleare presso l’ITIS “F. Corni” di Modena mi ha poi dato un indirizzo definitivo verso le misure nucleari e la dosimetria delle radiazioni.
Ho continuato ad approfondire il tema alla facoltà di Fisica dell’Università di Bologna, alla Scuola di Specializzazione in Fisica Sanitaria della stessa Università e con il dottorato in fisica all’Università Autonoma di Barcellona, con qualche periodo intermedio di specializzazione al CEA francese (Commissariat à l’Energie Atomique) e tante esperienze di ricerca e docenza presso centri ed Università internazionali.
Subito dopo la laurea e il servizio civile, svolto con la Caritas fra S. Martino in Rio e Correggio, ho lavorato cinque anni al Centro Ricerche ENEA di Bologna».
Tanti cervelli scappano dall’Italia; come mai tu hai deciso di restare nel Belpaese?
«Al cuor non si comanda.
Una data su tutte: ottobre 2002. Conobbi mia moglie in un viaggio di lavoro in India.
Una bravissima e bellissima biologa, che aveva fatto un Master in Scienze Ambientali all’Università di Wageningen in Olanda e che viveva e lavorava a Lima.
Decisi di invitarla a Lemizzone per il Capodanno.
Alla mamma dissi che veniva un’amica a trovarmi… le dovette sembrare un po’ inusuale che questa “amica” intraprendesse un viaggio così lungo solo per vedere Lemizzone a Capodanno!
Così dopo circa un anno ci sposammo e le possibilità di lavoro ci portarono a Roma: io all’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) di Frascati, lei all’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) e alla FAO (l’ONU per l’alimentazione e l’agricoltura).
Nel frattempo mia moglie convalidò la laurea peruviana all’Università di Bologna e conseguì il dottorato in ecologia forestale all’Università della Tuscia a Viterbo. Ed ora siamo qui, con due bimbi meravigliosi, in una casetta circondata da olivi sulla cima di una collina nei castelli romani.
Una vita professionale sulla cresta dell’onda. Qual è il segreto?
«Nelle nostre vite non c’è nulla di eccezionale, tranne quegli ingredienti che ci sono stati donati, nelle campagne di Correggio o sulle sponde del Pacifico, e che ci hanno portato lontano: il rispetto per gli altri, il lavoro duro condotto con umiltà e dedizione, il senso della famiglia e dei valori eterni che questa è in grado di generare».
Offerte dall’estero ne avete ricevute?
«Occasioni per uscire dall’Italia? Tante. Ma siamo rimasti perché volevamo mettere radici, possibilmente non troppo lontano dai nonni dei nostri bimbi.
Decisione presa senza rimpianti perché… le nostre vite e storie professionali sarebbero state diversissime senza il nostro incontro».