Devo trovarmi un’occupazione.
Devo trovarmi un piccolo impegno, qualcosa da fare per tenere la testa concentrata su un pensiero positivo che non mi lasci soccombere davanti alla tristezza nei momenti di sconforto.
Mi serve un approdo mentale, una boa alla quale potermi aggrappare per non affogare, quando l’angosciante paura di non riuscire a tornare a casa vivo mi travolge.
Ho bisogno di una strada alternativa da percorre per evitare che i pensieri si infilino in un vicolo cieco fatto di immagini bestiali che non lasciano alcuno spazio alla speranza.
Ma io la speranza la devo coltivare, perché io sono deciso ad uscire vivo da qui.
Io voglio sopravvivere.
Anche un’occupazione semplice come disegnare potrebbe aiutarmi a stare a galla. Alle volte basta davvero poco a darti la forza per vivere un giorno in più.
Martino, ad esempio, che qui nella baracca dorme nel letto a castello sotto di me, disegna non appena gli è possibile. Anche quando torniamo stanchi morti dalla fabbrica, lui si prende almeno cinque minuti per disegnare. Io lo osservo incantato dall’alto mentre muove la mano in modo svelto e preciso sul foglio. Si vede che ci sa fare. Vorrei chiedergli se quel tratto fine e sottile sia il suo stile o semplicemente uno stratagemma che utilizza qui, per farsi durare la matita il più possibile, ma ogni volta che sto per rivolgergli questa domanda, la voce mi muore in gola.
Disegna una foresta. Lo vedo disegnare la stessa foresta dal primo giorno in cui sono arrivato a Kèmaten. È una foresta fatta di alberi dagli alti fusti regolari uguali ai faggi che circondano il campo. Aggiunge un dettaglio ogni sera. Alle volte si tratta semplicemente di qualcosa di piccolo, come un ramo o qualche foglia; altre volte invece è un particolare importante. Ieri ha disegnato uno scoiattolo con una lunga coda pelosa. Ha detto che sua figlia ama gli scoiattoli e quel disegno è un regalo per lei.
Martino è sicuro che, quando il disegno sarà finito, gli americani avranno finalmente vinto questa guerra e noi saremo liberi di andarcene. Allora, una volta a casa, lui mostrerà quel bosco alla figlia per spiegarle dove se ne è stato per tutto questo tempo.
Credo che aggiungere alberi sia il suo modo per dare una forma ai giorni che passano, così come ogni albero in più, che va a rendere sempre più fitta questa foresta, motivi il perché noi siamo ancora intrappolati qui.
Io però non posso disegnare. Non sono mai stato bravo in queste cose e riempirei il foglio solo di scarabocchi o di esseri mostruosi. E non è di mostruosità ciò di cui ho bisogno.
Devo trovarmi altro da fare.
Magari potrei usare le parole.
Non sarò bravo a disegnare, ma a scrivere me la cavo bene. Forse dovrei concentrarmi su delle poesie, delle filastrocche che, una volta finite, potrebbero diventare un regalo da portare a mia madre il giorno del mio ritorno a casa. Lei ama queste cose. Da quando ne ho ricordo l’ho sempre vista che, indaffarata nelle sue faccende, canticchia recitando un testo, uno scelto tra i tanti che sa, quello che le pare più adatto all’occasione. Se chiudo gli occhi la vedo anche adesso, che mescola la polenta nel paiolo e intona: Magnèr ed mègher, o che rammenda seduta vicino al camino cantilenando: La pulga. E se sta zappando l’orto, allora è alle prese con: L’olem e la vida. So per certo che si bloccherà sulla strofa che dice:
E lò, tut infrasché e in gran vigòr a la cuchéva, e lé, d’autùn, cum la fòia ròssa, la pariva vergugnères dal so amòr.
Quella strofa per lei non ha la rima e non l’è mai entrata in testa.
La posso immaginare mentre alza gli occhi al cielo e sbuffa spazientita, perché deve concentrarsi sulle parole per farle uscire al posto giusto, e questa è una cosa che la fa proprio indispettire.
Ma se io ora riuscissi a concentrarmi sulle rime, al mio ritorno mia madre avrebbe una raccolta di filastrocche fatte di parole cucite fitte fitte l’una all’altra apposta per essere ricordate; ce ne sarebbe una adatta ad ogni occasione, ad ogni giorno, ad ogni momento dell’anno.
Basta. È deciso: scriverò.
E quando questa guerra sarà finita mia madre riavrà me e con me avrà questo mio regalo scritto apposta per lei.
Edmeo Savazza era un giovane soldato di 19 anni quando, in seguito agli avvenimenti dell’8 settembre 1943, venne deportato nei lager nazisti.
In occasione delle celebrazioni del 50° Anniversario della Liberazione, il Comune di Correggio pubblicò un suo diario intitolato “Operazione soppravvivenza” nel quale, l’amato Preside, racconta della sua esperienza nei campi di Pongau, Tirol e Voralberg. In appendice, l’autore sottolinea che la sua prigionia fu, tutto sommato, un’esperienza “fortunata” per le condizioni materiali nelle quali avvenne, se paragonata a quella di centinaia di migliaia di prigionieri i quali, a causa di stenti o maltrattamenti, in altri campi trovarono la morte.
Questo racconto trae libera ispirazione dalla sua vicenda.