Umberto Galimberti
ha 81 anni, è uno dei più importanti filosofi italiani e nella sua attività ha saputo integrare filosofia, psicologia e antropologia, pervenendo ad un’unica ed originale visione del mondo.
Discepolo di Emanuele Severino, è professore emerito all’Università Ca’ Foscari di Venezia, psicanalista, autore di saggi filosofici, di psicanalisi, di sociologia e del fondamentale “Dizionario di Psicologia”, tradotti in diversi paesi. Collabora col “Sole 24ore” e “Repubblica”. Ha di recente pubblicato “L’etica del viandante” (ed. Feltrinelli).
È stato ospite di Primo Piano nel 2018 in un affollato incontro intitolato “Ma è un paese per giovani?” e ha condiviso con i lettori del nostro periodico alcune preziose “opinioni d’autore”.
Gli antichi greci avevano come universo la natura, in cui l’uomo stava alla pari degli altri soggetti, e come gli altri soggetti obbediva ai limiti fissati dalla natura: infatti i greci non dicevano “gli uomini”, ma “i mortali”. Di qui nasceva l’etica (la distinzione tra il bene e il male): chi supera i limiti va incontro alla rovina. Prometeo, il dio della “tecnica”, ignora il limite, ruba il fuoco degli Dei per darlo agli uomini e finisce incatenato. L’etica cristiana invece ha posto al centro dell’universo l’uomo come immagine di Dio, promettendo il superamento del limite (attraverso la vita eterna). E da lì in poi tutto il pensiero occidentale tratterà l’uomo come “il” fine. Le etiche antropocentriche che si sono succedute nella storia (l’etica delle buone intenzioni, l’etica della ragione, l’etica della responsabilità sociale…) relegano di fatto la natura a “mezzo”, non da rispettare ma da usare. Qui sta l’origine della nostra attuale rovina. Qualcuno, come san Francesco, ha cercato di correggere questa concezione, che considera tutto in funzione solo del genere umano, proponendo una “etica della fratellanza” con gli altri elementi della natura, ma è stato considerato, se va bene, un poeta.
Siamo così arrivati oggi al punto in cui la “tecnica” (la capacità di fare) è cresciuta, per effetto del “progresso” alimentato dal pensiero antropocentrico, assai più della capacità dell’uomo di prevederla e quindi di indirizzarla. La tecnica è un mondo con dei fini ma senza scopi, non promette nulla, semplicemente “funziona”, cioè persegue un obiettivo solo come mezzo per raggiungerne uno successivo, il quale a sua volta… eccetera. Il suo pensiero è calcolo. I suoi valori sono l’efficienza, il mero risultato, il risparmio di tempo e di costi. Uno dei primi esempi di prevaricazione della tecnica sull’uomo è stato il soldato nazista, che agiva in modo efficiente senza porsi altri scopi, ignorando quindi la responsabilità personale che invece è propria della cultura antropocentrica. La tecnica concepisce un universo di “mezzi” in cui finisce anche l’uomo: un immigrato come uomo non serve, come mezzo di profitto invece serve. E se un algoritmo guida sempre di più le decisioni che ci riguardano, ricordiamoci che non dice “chi sono io” ma “a cosa servo io”. Allora, se abbiamo più fiducia nell’intelligenza artificiale che in quella umana il nostro destino è segnato.
Nel mondo della tecnica la storia, come il tempo, non esiste più: il passato è solo sorpassato, il futuro sarà il risultato dello sviluppo di procedure tecniche. E una conseguenza di ciò è la crisi della democrazia: ma quale “potere al popolo” se la gente non è in grado di comprendere i fenomeni (dovremmo essere tutti ingegneri, biologi, chimici ecc.) e perciò non è in grado di decidere con cognizione? Hanno sempre più successo i partiti populisti, che semplificano ciò che non capiscono e ottengono il potere solo su basi emotive (mi piace – non mi piace), fino al fallimento inevitabile.
A quale etica allora dobbiamo fa-re riferimento? Psicologicamente l’uomo è angosciato sempre più dalla domanda “ma io perché vivo?”, e la natura intanto viene sistematicamente stuprata e consumata.
Io credo che per cominciare dobbiamo passare dai valori del “viaggiatore” a quelli del “viandante”. Il viaggiatore tende a una meta, i luoghi intermedi non hanno per lui significato, il tempo di arrivare e poi torna a casa, cioè consuma lo spazio e il tempo. I suoi valori sono la realizzazione personale, la terra natia coi suoi confini, la stabilità familiare raggiunta, casomai la speranza di vita eterna. Il viandante invece non ha scopi da raggiungere né patrie a cui tornare, non concepisce frontiere. Lui cammina e il sentiero non è tracciato, lo determinano i suoi passi. Camminando incontra il prossimo, che via via è sempre meno simile a lui, ed è costretto a conoscere e ad apprezzare le “differenze”. Si rende conto della situazione in cui versa l’ambiente che attraversa, soffre insieme alla natura che sta soffrendo a causa dell’uomo. Insomma capisce che lui non è il centro dell’universo ma una parte della catena degli esseri viventi. Questo ci convincerebbe a praticare un’etica biocentrica, o, come già diceva padre Ernesto Balducci, di costruire la cultura di un “uomo planetario”.