È un fiume in piena, il presidente Bonaccini. Martedì 21 Luglio è tornato a Correggio per inaugurare il ciclo di serate organizzate dal PD locale, una delle pochissime iniziative sopravvissute ad un’estate falcidiata dal Covid e dalle sue sacrosante norme di prevenzione. Introdotto dal sindaco Ilenia Malavasi e intervistato da Margherita Grassi di Telereggio, ha preso spunto dal suo libro “La destra si può battere” per raccontarsi ai nostri concittadini, accorsi numerosi ad ascoltarlo.
Una narrazione vigorosa la sua, che ha spaziato dall’amore per il territorio, alla sfida locale e nazionale a Salvini fino ai terribili mesi della pandemia, quando ha posto l’accento sull’importanza della sanità pubblica e sul lavoro encomiabile degli operatori di settore.
Dalle sue parole traspare una conoscenza certosina della Regione, delle sue virtù, delle sue sfide e del suo popolo, al quale spesso si rivolge direttamente: “È vero, o no?” è stato uno dei mantra della serata, un coinvolgimento dei cittadini che non suona affatto come un infantile plebiscito, ma come un genuino interesse per le opinioni degli emiliani, che siano o no suoi elettori. Una boccata di aria fresca in un PD claudicante e dalla leadership tormentata, diviso fra due necessità: tenere insieme la difficile alleanza con il M5S e non fare troppi regali al centrodestra. Nonostante i mille impegni, Bonaccini ha trovato il tempo di scambiare qualche amichevole battuta con Primo Piano: ecco cosa ci ha detto.
Un bel sottotitolo per il tuo libro sarebbe stato “Quien me quita lo bailado”, una delle frasi più famose di Julio Velasco, allenatore-filosofo della generazione dei fenomeni: nessuno mi toglierà mai i balli che ho ballato, i sogni che abbiamo realizzato. Hai guidato un gruppo che ha battuto “Il Capitano”, un’esperienza difficile ma fantastica: cosa ti ha insegnato?
«Citi Velasco e mi vengono i brividi, è una persona che ho sempre ammirato molto. Durante la campagna elettorale si è schierato con me, dicendo parole bellissime, e mi ha fatto veramente piacere. Hai ragione, le ultime elezioni sono state un’esperienza indimenticabile: mi davano tutti per sconfitto in partenza. Salvini sembrava inarrestabile e veniva da due anni di vittorie nelle quali aveva sbaragliato ogni avversario. Però, e nel libro lo racconto, io ci ho sempre creduto. Sono sempre stato fiducioso. Fin dall’inizio, andando in giro comune per comune, ho percepito un’atmosfera positiva: c’era una grande voglia di mobilitarsi, di difendere i risultati di questi cinque anni e, soprattutto, di impegnarsi per le proposte che avevamo avanzato per l’Emilia-Romagna che vogliamo costruire, ancora più forte e più giusta. Per fare un passo avanti. Quello che mi ha insegnato, dunque, è che lavorare alla fine paga: da soli slogan e selfie non bastano, alla fine contano i fatti. La mia vittoria è stata anche la rivincita delle competenze, dei progetti e del confronto sui temi concreti. Un buon punto di partenza anche per i prossimi cinque anni, non credi?».
All’inizio della campagna elettorale di fronte alla comunicazione aggressiva e volgare della destra ci si sentiva disarmati. Tu sfoderavi entusiasmo, passione e numeri…
«Credo sia arrivato il momento anche per la Regione di stilare all’inizio del mandato un Piano Strategico e alla fine un Bilancio di Responsabilità Sociale attraverso il quale valutare l’impatto delle azioni, rendere partecipi e coscienti i cittadini. Come ho visto fare in certe regioni della Francia si potrebbe inviare un sunto a tutte le famiglie, che così avrebbero la reale dimensione del lavoro svolto nei vari ambiti e sarebbero orgogliosi della loro Regione. Tieni però presente che abbiamo da poco presentato il programma di mandato, pubblicato sul portale della Regione, sul quale ogni cittadino potrà misurare il nostro operato, così come, sempre sul sito istituzionale, è disponibile il resoconto di quanto fatto nello scorso mandato. Ma tocchi un punto importante: rendicontare i risultati è fondamentale, perché troppo spesso io sento gente che si lamenta senza conoscere quanto di buono è stato fatto. Mi spiego meglio: se ci sono problemi, è giusto farli emergere e affrontarli, però allo stesso tempo è doveroso anche raccontare i risultati raggiunti. Io giro molto questa Regione, sono stato in tutti i Comuni più volte. Molti sono governati da amministrazioni di diverso colore politico, che legittimamente non la pensano come me, ma nessuno di loro potrà mai dire di non aver ricevuto ascolto o risposte dalla mia giunta. Così come mi si può accusare di tanti difetti, ma non di quello di non mantenere la parola data. É il mio modo di intendere una buona amministrazione: si ascolta, ci si confronta, poi si decide nell’interesse dei cittadini».
Sei riuscito magistralmente a tenere unite le varie anime del centro sinistra e condurle ad obiettivo comune, impresa che non riesce quasi mai a nessuno…
«Alla base ci sta il mestiere più antico e raffinato in politica: l’arte della mediazione».
Ci sarebbe una grande necessità di un gruppo dirigente che, insieme a pensatori raffinati, stilasse un Manifesto per il futuro nel quale definire i principi fondanti, gli obiettivi generali. E poi di un leader dalla grande capacità gestionale. Quali sono i tuoi progetti?
«Oggi ho solo un progetto in mente: governare l’Emilia-Romagna. È un privilegio che cerco di onorare ogni giorno: non dirò mai di non aver sbagliato, ci mancherebbe, ma posso assicurare di aver sempre dato il mio meglio. Inoltre, sono presidente della Conferenza delle Regioni e del Consiglio dei Comuni d’Europa, il primo italiano: sono ruoli dove ho sempre cercato di favorire il dialogo tra realtà molto diverse. Pensa alle Regioni: hanno caratteristiche molto differenti, guide politiche di ogni colore, necessità e bisogni che variano da Nord e Sud. Eppure, durante l’emergenza sanitaria, abbiamo preso all’unanimità il 95% di tutte le decisioni, dando un contributo fondamentale all’azione di Governo. Io sono abituato a lavorare così».
Hai dedicato un intero capitolo a Mihajlovic, Zaytsev e Velasco, tre “emiliani venuti da lontano” che hanno dimostrato di voler bene a questa Regione. Vorrei estendere il ragionamento: i fondatori delle Sardine, elemento sconvolgente di questa campagna elettorale, sono ragazzi venuti da altre regioni, che si sono sentiti in dovere di difendere “il modello emiliano-romagnolo” perché ne percepiscono il grande valore. Gli emiliani autoctoni erano forse convinti che non ci fosse più bisogno di lottare per sostenerlo? È un caso, o forse va ricreato un nuovo modello partecipativo?
«Sei troppo duro sugli emiliano-romagnoli. Io incontro decine di persone straordinarie ogni giorno, che lavorano insieme, si rimboccano le maniche e spesso trovano soluzioni geniali. Imprenditori, professionisti, ma anche volontari: se penso alla solidarietà dimostrata da questa Regione durante la pandemia, mi commuovo. In poche settimane abbiamo raccolto decine di milioni di euro, che investiremo in dotazioni sanitarie e rendiconteremo fino all’ultimo centesimo. E ancora le tantissime associazioni che rappresentano un tessuto umano e sociale ricchissimo, che dobbiamo difendere e valorizzare. Tornando alla tua domanda, forse questo patrimonio ha bisogno di essere più coinvolto, più stimolato. É quello che ho cercato di fare nell’ultima campagna elettorale, coinvolgendo quel civismo che non si riconosce nei partiti, ma ha tantissima voglia di mettersi in gioco. Aspettavano solo qualcuno che glielo chiedesse e in questo le Sardine hanno incarnato quella necessità. Non è un caso che tantissime persone, quelle che hai citato tu ne sono un esempio, vivano bene in questa terra e finiscano per farsi adottare. L’Emilia-Romagna è un posto speciale».