Le donnine del Cavour

D – Prova… prova prova… unoduetreprova… ecco adesso dovrebbe registrare. Sì, registra.

R – Del resto a che servirebbe un registratore che non registra? Tanto varrebbe usare un tostapane.

D – Già, Wanda. Tu stai per compiere 116 anni, mi pare…

R – Non mi lamento

D – Il Centro Culturale ci ha chiesto di intervistarti sull’albergo Cavour, perché non si disperdano le tue preziose memorie… Pubblicheremo un libro su di te, verrà fatta una festa a cui ovviamente sarà presente il sindaco, lei non manca mai.
Raccontami tutto quello che ti ricordi dell’epoca favolosa di cui sei stata protagonista.
Che cos’era il Cavour negli anni trenta e quaranta?

R – Ma tu sei la figlia della Margherita ed Righèt?

D – No, cara. Non c’entro coi Righèt!

R – Meglio; gente strana i Righèt. Senti, io credo che siamo state un’istituzione correggese, facevamo dell’intrattenimento come il cinema Politeama o il teatro Asioli.
Pensa che i barbieri usarono delle vignette a nostra somiglianza per i loro calendarietti profumati alla lavanda che a Natale regalavano ai loro clienti!
E in fondo facevamo anche dell’istruzione, come il Convitto o le suore.

D – È un bel punto di vista, Wanda

R – Sempre meglio che dire di aver fatto le puttane, non ti sembra?

D – Com’è cominciata la storia dell’albergo Cavour?

R – A Correggio ci sono sempre state ragazze che facevano del bene a domicilio.
Durante la prima guerra era dura: gli uomini giovani al fronte e le donne e i bambini a casa a far la fame.
Così si arrotondava. E dopo la guerra è stato peggio: gli uomini all’osteria e le donne e i bambini a far la fame.
E non tutte potevamo andare a fare le mondine, ti pare? Ma tu non sei neanche parente coi Bisarèin?

D – Chi, i Bisi di Budrio? No, mi pare di no.

R – Meglio così; tot sord i Bisarèin! La sera del 1928, dovevi esserci! Quando Alfeo chiuse l’albergo che era stato venduto alle pie sorelle Scaravelli.
Alcuni clienti putti portarono lo spumante di mele; la Dirce aveva acceso tutte le luci e piangeva come una vitella; suo marito Alfeo si soffiava continuamente il naso.
Tutte noi anziane del mestiere ridevamo e piangevamo insieme, e quella notte facemmo gratis l’amore con i più affezionati clienti.
Dovetti consolare il Flora che non riusciva a finire il lavoro perché era troppo commosso e mi piangeva sul seno.
In fondo ognuna di noi poteva proseguire come ditta individuale invece di avere i servizi consortili.
Eppure sembrava proprio che finisse una stagione.

D – E l’albergo che fine ha fatto poi?

R – Le pie sorelle Scaravelli, si diceva, l’avevano comprato per far cessare lo scandalo di quel centro di fornicazione, ed esorcizzarlo.
Lo donarono all’Azione Cattolica. I ciesulàn lo destinarono ad un convento di suore e gli diedero un nome di redenzione: La Divina Provvidenza.
Avessero avuto un po’ di pazienza ci avrebbe pensato il progresso a cancellare i binari e la Merlìn a far finta di cancellare la prostituzione.

D – Già, la ferrovia.

R – Beh, è per quello che la locanda era comodissima.
La stazione stava lì di fronte; due passi e si era dalla Dirce a passare la notte. Non era un bordello a tutti gli effetti, piuttosto un fai da te con provvigione che conviveva con una normale locanda. Se volevi la casa di tolleranza ufficiale, quella con le professioniste vestite da ballerine del varieté che cambiavano ogni quindici giorni, e con la sirena che scandiva i dieci minuti, dovevi andare in città.
A Reggio c’erano tre bordelli, tutti piastrellati come ospedali.
Da noi sui minorenni la Dirce chiudeva un occhio: a controllare le carte d’identità metteva un’inserviente orba, così se veniva un’ispezione non si poteva in coscienza accusarla di niente.

D – La vostra era una soluzione più alla buona, dunque…

R – Artigianale, direi. Avevamo tre obblighi: certificato medico, la provvigione alla Dirce, e non andare con uomini regolarmente sposati per non generare casini.
Le mantenute erano tutto un altro genere, non so dirti se più o meno decoroso.
Comunque mica chiedevamo il certificato di stato civile! Evitavamo di farci dei progetti sopra, questo sì. Per il resto non avevamo obblighi di produttività.
Alcune ricevevano nella loro camera; noi altre venivamo da Correggio quando eravamo libere e aspettavamo nella hall di essere ricevute nella stanza da letto di un qualche cliente.

D – Hai dei ricordi di quegli anni, Wanda?

R – A centinaia. Poi te li racconto, tanto i clienti sono tutti morti.
Ogni camera aveva la sua abat-jour e nella hall un grammofono malandato gracchiava tanghi che avrebbero dovuto essere sensuali. Ricordo che c’era un rappresentante di casalinghi, piccolo piccolo e secco, che arrivava col treno delle 17 e 35 un lunedì sì e uno no; voleva sempre la stessa camera e ordinava di non essere disturbato.
Una volta arrivò tardi, la sua stanza era già occupata; così, nella camera che gli diedero, quando venne l’ora, entrò la Marisona prenotata da un cliente abituale.
Purtroppo la Dirce si accorse dell’errore che era ormai troppo tardi, sicuramente il poveretto era schiattato sotto la mole inverosimile della mantovana, e ognuna di noi a suo modo si immaginava come poteva essere la spremuta di rappresentante di casalinghi.
Invece, al mattino, l’omino si presentò in buone condizioni, prese con sé la Marisona e venimmo a sapere che si erano sposati a Viadana.

D – Ritorniamo alla fine, Wanda. Adesso in corso Cavour non ci sono più suore.

R – Eh, generazioni di bambini ci hanno passato l’asilo! Poi alle suore hanno regalato il Recordati e i locali in corso Cavour hanno accolto un bar dell’ACLI.
Ultimamente il palazzo è stato completamente risistemato, c’è venuta una struttura per anziani.
Se vuoi darci un titolo al libro, questo è il succo della storia: si tratta di una metafora del tempo che passa, una “casa di piacere” è dovuta diventare una “casa protetta”.

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