Non sempre un autore teatrale trova una platea pronta ad accogliere ciò che ha scritto; questo è avvenuto sin dall’inizio della storia del teatro e continuerà ad accadere per i secoli dei secoli.
A volte ciò che è stato un insuccesso in un determinato luogo, è diventato poi un successo altrove; in altri casi a dare ragione all’autore non è stata la differenza di spazio, ma quella di tempo: ciò che non è piaciuto nel presente, è stato apprezzato nel futuro. Tutto ciò induce a pensare che, spesso, il problema della comprensione di un testo, sia dovuto ad un qualche tipo di sfasamento, che si presenta tra il “qui” e l’“adesso” di un emittente e il “qui” e l’“adesso” di un ricevente.
Perché scrivo ciò? Perché mi è parso che lo spettacolo Laika di Ascanio Celestini, andato in scena mercoledì 12 e giovedì 13 aprile all’Asioli di Correggio, abbia trovato un pubblico diviso a metà tra coloro che hanno apprezzato, applaudito, riso e sofferto per quanto veniva detto, e coloro che, invece, hanno atteso, educatamente in silenzio (o sbuffando maleducatamente!), la fine dello spettacolo.
Personalmente ho trovato Laika un acuto e pungente spaccato della tribolata vita degli ipotetici abitanti di un rione popolare romano.
Forse il monologo non è risultato sempre facilmente comprensibile, questo lo riconosco, e magari, in parte, ciò è dovuto al forte mimetismo che caratterizza la scrittura di Celestini: i suoi personaggi sono “reali” e parlano quell’italiano rionale che udiremmo se facessimo un giro per i più degradati quartieri romani. Sono certa che il pubblico sia ormai abituato al colore dell’italiano regionale, poiché questo stile è utilizzato da apprezzati autori, non solo di teatro; ciò non toglie che ad ognuno di noi possa capitare una serata nella quale non si ha voglia di andare oltre alle barriere linguistiche, ma tale stato d’animo si è indubbiamente rivelato inadeguato alla “traduzione” di Laika! A te, mio caro vicino di poltrona, che all’ennesimo congiuntivo sbagliato hai affondato la testa tra le mani, vorrei dire questo: sono certa che Celestini conosca il corretto utilizzo dei tempi verbali, nonché la differenza che intercorre tra i verbi insegnare e imparare, ma che non riconosca la stessa competenza linguistica alla prostituta, al barbone, allo straniero sfruttato, all’umile anziana, pur attribuendo, però, a tutti costoro una nobiltà d’animo superiore a quella di molti acculturati!
Un’altra difficoltà contro la quale forse è incappato lo spettatore è stata data dal carattere fortemente frammentario del testo, tipico dello stile narrativo detto flusso di coscienza, utilizzato per la prima volta da Joyce nel suo Ulisse. Per questo “problema” c’è poco da dire: il flusso di coscienza c’è chi lo ama e chi lo odia; ma se anche de gustibus non disputandum est, occorre sempre tenere ben presente il fatto che ciò che oggi non ci è piaciuto, potrebbe sempre piacerci domani!
L’italiano regionale al cinema e nella fiction
Il così detto italiano regionale, ossia quella variante di italiano che si trova tra il dialetto e la lingua nazionale, è costellato da improprietà lessicali che derivano proprio dall’influenza del dialetto. Ha fatto il suo ingresso al cinema con film come Roma città aperta di Rossellini (1945), Paisà, sempre di Rossellini, Ladri di biciclette, di Vittorio de Sica (1948). In tv è utilizzato dalle fiction o da quei film che simulano il parlato quotidiano. Un esempio fra tutti potrebbe esser Un posto al sole, la prima soap opera italiana, in onda dal 1996, la quale si basa su un format australiano. Nelle battute dei personaggi, meridionalismi lessicali di ampia diffusione come l’utilizzo del verbo tenere al posto di avere, ridondanze pronominale come il me mi o il te ti, e tanti altri regionalismi sono utilizzati proprio per fare apparire reali i colloqui. Tutte le regioni presentano dei costrutti particolari, studiati dai linguisti e utilizzati dagli sceneggiatori per dare veridicità ai personaggi.