La meglio gioventù

Elogio dei nostri studenti, sì, da docente

Il ritorno a scuola è stato segnato da attesa. Un’attesa in parte, possiamo dirlo, urticante. L’attesa per le decisioni ministeriali, per le disposizioni sanitarie, per l’andamento della curva epidemica, per i banchi con le rotelle, per le aule, per le lavagne… ma soprattutto l’attesa di incontrare i compagni, di fantasticare sulle compagne, di offrire un caffè ai colleghi, di commentare le lezioni di persona.
L’attesa è una delle serrature che schiudono la comprensione dell’animo umano: dimmi come attendi e ti dirò chi sei. Attendi con pazienza o con rabbia? Con speranza o con rassegnazione? Stando fermo o fremendo?
L’attesa di questo inizio d’anno scolastico al liceo Corso (conosciuta anche come “l’estate”) ha avuto due caratteristiche: la previdenza e l’operosità.
Per tutta l’estate la dirigenza si è “messa avanti coi compiti” cercando di prevedere quali sarebbero state le necessità più impellenti e, nello stesso tempo, quali indicazioni sarebbero giunte dal ministero. Le ipotesi ribollivano, le dichiarazioni rimbalzavano, i decreti uscivano a puntate come le storie di Topolino. Chi nei mesi estivi ha avuto la torrida responsabilità di organizzare la vita liceale non ha avuto vita facile, potete crederci.
Ecco l’operosità cui si accennava: cercare aule, misurare pareti, spostare banchi, progettare percorsi, appendere vademecum… disinfettando tutto (e poi disinfettandolo di nuovo).

Poi finalmente l’attesa ha avuto termine: il capodanno scolastico si festeggia con le foglie che iniziano a imbrunire.
Dopo aver passato le prime mattine in aula, bisogna parlare bene degli studenti. Bisogna. Subito.
(L’etimologia di professore è “colui che parla pubblicamente”, ma è bello pensare che quel “pro-” all’inizio possa declinare il significato della parola nel senso di “colui che parla a favore di”: a favore degli studenti.)
In tutte le classi, fin dal primo giorno, i ragazzi si sono adattati alle regole sanitarie con cordiale rispetto, bruciante obbedienza e lampeggiante stupore di alcuni adulti increduli.
Non si sta chiedendo a loro un sacrificio da poco: devono passare l’intervallo seduti al banco, possono muoversi solo con la mascherina, hanno tragitti obbligati per entrare, uscire ed andare in bagno. Devono stare fermi: e ognuno ricorderà che l’adolescenza è l’età del movimento. A quindici-diciotto anni il corpo cresce e si snocciola, la mente si sbriciola e poi cerca combriccola, l’anima cova nell’ombra, segreta e meravigliosa. Eppure, con grandissimo senso sociale, gli adolescenti del nostro liceo (e, sono sicuro, di tutte le scuole di Correggio) hanno capito la situazione e hanno abbracciato la sovrastruttura, scolandosi il calice dei regolamenti, delle attese, della fila-a-un-metro-di-distanza-l’uno-dall’altro, dell’assenza del rito magnetico del paninaro, del vuoto cosmico davanti alle macchinette del caffè.
Non credo ci sia un solo collega che possa dire che non stanno affrontando l’emergenza con grande responsabilità – scomodiamo pure questa parola. Sì: i nostri giovani sono responsabili. Ci possiamo fidare di loro. Dategli un labirinto medico-burocratico: ci entreranno; dategli una missione e un’armatura: l’indosseranno; dategli una questione di vita o di morte: l’affronteranno.
Lo ripeto: mi posso fidare dei miei studenti. Dalla prima alla quinta: sanno cosa stanno facendo. Sono responsabili, giuro.
Ma in realtà ciò può stupire solo chi gli adolescenti non li conosce, o li interpreta dando corda ai finti profeti dei programmi tv da divano pomeridiano: da sempre l’adolescenza è anche l’età delle prime, cocenti, responsabilità.

Riporto le considerazioni di un collega a riguardo: “Cosa ci dicono le immagini degli studenti che vanno a scuola rispettando le regole contro l’epidemia? Se questi ragazzi riceveranno un buon esempio dagli adulti ricorderanno di aver sacrificato un po’ della loro libertà per un bene più grande e di tutti; impareranno una disciplina dei propri comportamenti, condivisa da insegnanti e adulti in genere, richiesta da una causa maggiore; percepiranno – e quando saranno più adulti comprenderanno – di aver dato il loro contributo a tenere sotto controllo una malattia epidemica, che da un anno mette in crisi anche i paesi meglio attrezzati. La scuola, in mezzo a difficoltà inedite, dà in questo frangente il meglio di sé come istituzione pubblica, cercando di mantenere il più possibile rapporti umani, affabili e sorridenti, pur prendendo su di sé la responsabilità della prevenzione del contagio.

Insomma: in una parola l’anno scolastico coronato dal Covid-19 è iniziato con “sinfonia” o “sintonia” o “sincronia” o una qualsiasi delle altre parole che iniziano con “sin-” e finiscono con “-ìa”.
Davanti alle difficoltà sanitarie il liceo Corso (ma, sono certo, tutte le scuole italiane, povere orfane sì, ma con una certa spina dorsale) ha tirato fuori una notevole dose di concordia e collaborazione: bidelle che ricordano di sanificarsi (gentilmente!), studenti che aspettano il loro turno per sgranchirsi (pazientemente!), professori che passa-prima-tu no-carissimo-passa-prima-tu, presidi che perdono il sonno per la loro scuola… e infine un silenzio assordante: quello delle lamentele.
Forse sono stato fortunato, ma in questi giorni d’inizio scuola non c’è stato un solo studente, un solo collega o un solo personaleATA che abbia visto – davanti agli oggettivi disagi antivirus – lamentarsi.

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