La giusta memoria, per agire sul presente

Marco Belpoliti, reggiano di origine, scrittore, giornalista, critico letterario e accademico ha curato per Einaudi le Opere Complete di Primo Levi, il riferimento indiscusso a cui si appoggiano tutti gli studi critici sul grande scrittore e testimone dell’Olocausto.

Nel 1992 Tzvetan Todorov viene invitato dalla Fondazione Auschwitz a Bruxelles a tenere un discorso in occasione del convegno “Storia e memoria dei crimini nazisti”. Il titolo che lo scrittore bulgaro, naturalizzato francese, sceglie è emblematico: Gli abusi della memoria. Diventa ben presto un saggio che circola tra gli studiosi e non solo. Todorov esordisce ricordando come i regimi totalitari del XX secolo abbiano manifestato un pericolo sconosciuto nel passato: la cancellazione della memoria.

Non che non sia avvenuto in precedenza, poiché ci sono esempi storici di damnatio memoriae negli antichi imperi, compreso quello bizantino, di cui restano tracce nei mosaici ravennati. L’oratore di quella giornata a Bruxelles cita una frase emblematica di Himmler a proposito della Soluzione Finale: “Questa è una pagina gloriosa della nostra storia, che non è mai stata scritta e non lo sarà mai”. E di rincalzo un’altra tratta dal più importante libro della seconda metà del XX secolo, I sommersi e i salvati di Primo Levi: “L’intera storia del breve Reich millenario può essere letta come una guerra contro la memoria”. Analizza con anticipo di decenni quello che ora è una delle evidenze del nostro presente: ogni aspetto della nostra società, compreso il consumo, è sempre più veloce e rapido, a partire dall’informazione. Ci stiamo rapidamente allontanando dalle memorie del passato, afferma Levi, “tagliati fuori dalle nostre tradizioni e abbruttiti dalle esigenze della società edonista, privi di spirito curioso come di familiarità con le grandi opere del passato, saremo condannati a celebrare allegramente l’oblio e ad accontentarci delle vane glorie dell’istante”.

Quel momento è ora arrivato e la memoria è minacciata non tanto dalla cancellazione delle informazioni, ma proprio dal contrario: la sovrabbondanza. Todorov non aveva allora visto sorgere il web 2.0 e neppure i social network, o le fake news, ma il tema è già ben presente nel suo intervento. Siamo diventati dei volonterosi attivisti dell’oblio, non tanto e non solo nelle dittature, dice. Nei regimi democratici, o presunti tali, la meta, insiste, diventa la medesima: cancellare la memoria.

Chi ha letto le pagine iniziali de I sommersi e i salvati ricorderà una frase di Levi che colpisce immediatamente: “La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei”. Pronunciata dal testimone dei Lager nazisti per eccellenza l’affermazione fa sobbalzare, e ovviamente riflettere.

La seconda questione che Todorov pone è quella del culto della memoria. Non la memoria della deportazione o del genocidio praticato dal nazismo, ma di tutte le forme identitarie che egli vede sorgere agli inizi degli anni Novanta del XX secolo in Europa, e non solo lì. In modo fulminante ricorda una frase pronunciata da Louis Farrakhan, il capo della nazione dell’Islam: “L’olocausto del popolo negro è stato cento volte peggiore dell’olocausto degli ebrei”. Non c’è una gara nel peggio, sembra suggerire Todorov, che scrive una frase emblematica: “C’è sempre qualcuno più vittima degli altri”.

La questione che pone l’ultima parte del discorso riguarda il titolo stesso della conferenza: l’eccesso di memoria. Si tratta dello stesso problema affrontato da Levi nel capitolo “La memoria dell’offesa”. L’intento del chimico torinese non era di criticare la “memoria letterale” delle vittime, bensì quello delle derive della memoria, come le chiama. A Todorov, che vittima non è stato, almeno in modo diretto, interessa invece l’uso strumentale della memoria, persino l’eccesso di memoria che non riesce a trasformarsi in “memoria generale”. “Il culto della memoria – scrive – non serve sempre la giustizia: non è nemmeno favorevole alla memoria stessa”. Vuole intendere che le vittime non debbono restare fissate alla “memoria letterale”. Lo dice verso la fine del suo intervento: “Oggi non ci sono più rastrellamenti di ebrei, né campi di sterminio. Noi dobbiamo tuttavia mantenere viva la memoria del passato: non per chiedere risarcimenti per l’offesa subita, ma per essere attenti a situazioni nuove e tuttavia analoghe. Il razzismo, la xenofobia, l’esclusione che colpiscono gli altri non sono identici a quelli di cinquanta, cento o di duecento anni fa; nondimeno dobbiamo, in nome di questo passato, agire sul presente”.

Lo diceva nel 1992, e poi c’è stata la guerra fratricida e interreligiosa nella ex Jugoslavia, e ai giorni nostri la strage dei migranti nel Mediterraneo, e altre vicende cui, spesso impotenti o inerti, abbiamo assistito e ancora assistiamo in questi anni che ci separano dal discorso di Bruxelles. Il suo è perciò un doppio invito: non fissare la memoria su un aspetto letterale ed evolvere verso la “memoria generale”, come Levi stesso ci ha insegnato.

Ne deriva la necessità di agire rispetto al razzismo e alla xenofobia in Europa, oggi più di ieri ritornante, com’è accaduto negli anni Settanta, quando il neofascismo si è riaffacciato in modo deleterio e pericoloso nel paesaggio dell’Europa scossa dal conflitto sociale e politico. Oggi le cose sono molto diverse: il fascismo si è travestito di altri abiti e forme, ma è pur sempre presente, come l’antisemitismo strisciante. Il genocidio del popolo ebraico è stato uno dei culmini della damnatio memoriae invocata da Himmler; tuttavia testimoni come Levi l’hanno iscritto con la propria vita ed opera nella memoria della storia umana. Quello che è avvenuto una volta può ripetersi nella medesima forma, e anche in altre diverse. E già si sta ripetendo.

Il verbo “Memoria”

Agire nel presente guardando al passato

a cura di Francesca Nicolini

Memoria. Possiamo interpretare questo termine in due modi: passivo, considerandolo un nome comune di cosa, oppure attivo, considerandolo un verbo. “Fare memoria”, ossia agire riportando all’oggi qualcosa di accaduto nel passato attraverso i sensi.

Mediante una foto, una canzone, un luogo, un oggetto, un profumo, una lettera, qualcosa torna a vivere. Fare memoria è fare i conti con la propria sensibilità. Rappresenta un modo di essere e di pensare, poiché scavare nel passato aiuta a comprendere e migliorare il presente.

Non basta una giornata l’anno per fare memoria, perché è necessaria una presa di coscienza che può e deve essere educata e allenata quotidianamente.

Fare memoria non è solo ricordare quanto accaduto durante la Seconda Guerra Mondiale alla comunità ebraica e a tutti coloro che sono stati perseguitati e uccisi per la sola colpa di esistere.

Fare memoria è ricordare che se non si educa all’uguaglianza, al rispetto dell’altro e alla solidarietà, si finirà per creare sempre un’asimmetria che genera dolore. Quello che procura il “forte” al “debole”, non riconoscendolo più come uomo e spogliandolo di ogni dignità e diritto. Le conseguenze sono evidenti anche oggi nelle guerre in Medio Oriente, nei naufragi del Mediterraneo, nella miseria dei centri profughi, in qualsiasi luogo in cui venga a mancare umanità e bellezza. Si può pensare che per natura l’uomo di fronte ad interessi e potere sia incline a scegliere il male, ma si tratterebbe di una futile generalizzazione.

In tutti i micro mondi in cui si continua incessantemente a fare memoria, da sempre esiste l’esempio di qualcuno che ha deciso da che parte stare. A dimostrazione che nella medesima situazione, ognuno la vive dal proprio punto di vista, o meglio, dal proprio punto di essere.

Non dobbiamo mai semplificare, poiché finiremmo per vivere la Memoria come un mero rituale. Memoria è ogni microstoria di coraggio, solidarietà e amore con cui entriamo in contatto.

Come quelle testimoniate alle Carceri “Le nuove” di Torino, nelle ultime parole dei condannati nei sotterranei in cui avvenivano le esecuzioni a morte durante il Secondo conflitto mondiale. C’è chi con ironia si preoccupa del proprio cappotto, chi è contento di aver servito la Patria, chi sogna la propria amata, chi si preoccupa per i genitori, chi si riduce a quattro potentissime parole: “Padre, mi stia vicino”. Parole diverse, semplici e fragili, accomunate da una instancabile e incrollabile voglia di libertà e amore.

È proprio sull’utilizzo delle parole che oggi dovremmo ragionare, perché si è perso il loro senso più autentico. Partendo dal termine libertà, troppo spesso travisato. Fare memoria è sentire vicino chi, nei modi più diversi, ha saputo declinare la voce del verbo “essere umano”. Dobbiamo continuare a ricercare questi mondi, perché solo così potremo fare in modo che certe cose non accadano più. L’uomo deve rappresentare per il proprio simile un nuovo inizio, non una tragica fine.

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