Simone Testi, architetto, libero professionista. Si è laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1998 con una tesi sulla periferia, quale potenziale luogo del vivere contemporaneo. Dopo aver collaborato con lo Studio Lugli di Modena su progetti urbanistici ed architettonici di rilievo, ha aperto nel 2004 il proprio studio a Correggio, in Corso Mazzini. Ha progettato spazi di abitazione e di lavoro e ristrutturato edifici di valore storico.
Sin dai primi studi di urbanistica all’università e, successivamente, ogni volta che mi sono occupato di pensare e disegnare pezzi di città, mi tornava spesso in mente il “modulo trasportabile” di Renzo Piano. Si trattava di una struttura prefabbricata smontabile da lui ideata nel 1979, in occasione di un programma Unesco di riqualificazione dei centri storici, che servì per attivare i laboratori di quartiere per il recupero del centro urbano di Otranto. L’idea di trasportare dei moduli da una città all’altra per allestire di volta in volta spazi temporanei, utili a studiare la città ospitante e incontrare i cittadini, mi affascinava. In quel periodo si riteneva preziosa la crescita culturale per costruire le scelte politiche, sociali e urbanistiche; si coinvolgevano figure disparate e multidisciplinari, perché l’urbanistica era sentita come materia anche artistica ed emotiva, che doveva scavare fin nell’intimo delle persone.
C’era un altro aspetto che trovavo molto interessante: i “piani progetto” di Bernardo Secchi. Questo grande urbanista stava sperimentando un metodo nuovo di ripensare la città, studiando a fondo singole parti ed ipotizzando una progettazione degli spazi che avesse già un carattere architettonico e dettagliato, per integrare ogni singola parte di una città intera.
Si tentava di superare le logiche progettuali astratte e inevitabilmente più generiche dell’urbanistica razionale, quella fatta con indici, numeri e funzioni, che non coinvolgeva la forma dello spazio e, quindi, non progettava con materiali, colori e prospettive.
In quegli anni c’era chi pensava che l’urbanistica non avesse più valore e che la città fosse fatta solo delle sue parti, indipendenti dalla loro relazione. Ciò dava più libertà progettuale, ma non si preoccupava di un progetto complessivo, fatto di idee e soluzioni che potessero migliorare la vita delle persone, trasformandole in una comunità.
Intanto, negli Stati Uniti, l’immensità di zone urbane fatte di strade piene di automobili, che arrivavano a servire ogni singolo e distinto lotto senza alcuna immaginazione e progetto urbano, convinceva un gruppo di architetti e urbanisti a ipotizzare nuove città, basate sulla realizzazione di centri sociali e commerciali di servizio a distanza massima di seicento metri, corrispondenti ad una passeggiata di quindici minuti. Ripensare lo spazio con questo criterio obbliga ad individuare una rete di percorsi, spazi verdi e alberature che ne rendano piacevole l’uso, in modo che siano occasione di relazione, una volta usciti dall’individualismo delle proprie automobili. Potrebbe essere la città a misura di bambino, visto che, se lo fosse, potrebbe accogliere tutti.
Mi piacerebbe un giorno uscire dalla porta dello studio e trovare il corso centrale di Correggio vuoto di automobili, perché pieno di passanti e ciclisti, spazio di gioco per bambini e spazi di lettura ai tavolini di un bar. Un giorno ho sognato che ogni locale del centro possa piantare davanti a sé un albero tra i ciottoli della piazza. Sotto distribuirebbe qualche tavolo e qualche sedia. La piazza sarebbe così alberata in base alla quantità di locali e bar aperti. Il centro diventerebbe sempre più accogliente e fresco, sostituendo il rombo e l’arroganza delle automobili con il fruscio delle foglie e qualche cinguettio.
Potrebbe servire qualche sogno per fare spazio all’immaginazione, rendendosi conto che certi sogni sono più concreti di quello che si crede. Molte piazze urbane sono state in effetti alberate nel tempo.
In occasione del ripensamento del Piano Regolatore Generale di Correggio, sarebbe bello un giorno uscire dallo studio e trovare il modulo trasportabile del Laboratorio di quartiere di Otranto nella piazza piena di passanti e ciclisti.
Sarebbe interessante riattualizzare queste esperienze passate, proprio quando si stanno ipotizzando interventi pubblici su edifici chiusi da tempo, affinché diventino luoghi della comunità.
Saranno necessariamente da ripensare anche gli spazi davanti alle scuole perché possano diventare spazi a misura dei bambini e non delle automobili che li portano e li ritirano. Se non ci fosse un’automobile ad attenderli potrebbero indossare un paio di pattini o giocare a rincorrersi con i propri compagni di scuola, vicini di casa, con i quali fare il percorso di ritorno.
Non sarebbe neppure necessario un vigile.
Potrebbe così essere una città di pedoni e di biciclette che in soli quindici minuti arriverebbero a casa, avendo anche la precedenza sulle automobili, costrette a rallentare e fermarsi ad ogni loro passaggio.
Non sarebbero neppure necessari i dossi.
In un laboratorio di progettazione sarebbero illustrate e discusse sperimentazioni e scelte già messe in pratica in altri contesti simili. Diventerebbe un’occasione per rendersi conto di quante possibili diverse soluzioni allo stesso problema siano ipotizzabili e le conseguenze di ciascuna scelta progettuale. Il laboratorio potrebbe anche acquisire una forma semi-permanente operativa, se si allestisse uno spazio di lavoro.
Ogni giorno questo spazio potrebbe essere gestito e utilizzato da un progettista locale diverso, in quel momento alle prese con la trasformazione di un pezzo di città, anche piccolo come una casa. Sarebbe il suo studio per un giorno, lasciando alla fine della giornata appunti di lavoro e considerazioni progettuali a qualsiasi scala di dettaglio. Ogni giorno si avvicenderebbero sensibilità diverse nel costruire una mappa d’interventi, perché possano poi diventare un intrico di relazioni e problematiche specifiche che, viste però in una prospettiva urbana generale, diventano potenziali strategie e risposte comuni per costruire un’idea di città condivisa e partecipata.
Un sogno comune.