Alzi la mano chi non ha mai giocato a “Campana”, noto anche come “riga”, “mondo”, “paradiso”, “settimana” o “sciancateddu”. Bene, visto che siete pochi non perdo tempo a spiegarvi il regolamento, di cui esistono tantissime versioni.
Per coloro invece, e sono tanti, che hanno passato giornate intere a giocarci assieme, maschi e femmine, vorrei sottoporvi una visione di tale gioco confrontata con gli attuali video-game e le varie realtà virtuali che si trovano sui moderni strumenti di distruzione dei ricettori nervosi-inibitori dello sviluppo ormonale dei nostri figli, nipoti, ecc.
La Campana, con le sue otto caselle disegnate, tracciate col gessetto o un sasso sul marciapiede, oppure con un punteruolo sul cortile o sul terreno, era ed è un gioco tradizionalmente più femminile che maschile.
Per cominciare occorre solo un sasso piatto. In Pratina facevamo la conta per stabilire i turni. Il giocatore lancia il suo sasso nel primo riquadro del percorso (quello segnato con il numero 1). Il sasso deve cadere nel riquadro, senza toccare le linee. In caso contrario, tocca ad un altro giocatore. Il giocatore che ha lanciato il sasso salta nel riquadro su una gamba sola, prende il sasso senza mettere l’altro piede per terra, si gira e ritorna al punto di partenza, sempre su una sola gamba. E senza mai toccare le linee! Se sbaglia, il turno passa al giocatore successivo. Se ci riesce, lancia di nuovo il sasso dal punto di partenza nel riquadro (2) e così via (la lunetta serve a svoltare al ritorno). Variante che si praticava alla Pratina: dal (2) si doveva saltare a gambe aperte sul (3) + (4) e così sul (7) + (8). Ogni volta che si sbaglia lancio o saltando si tocca le linee, subentra un altro. Vince il giocatore che finisce per primo il percorso.
Ora, il gioco può essere anche di coppia, e qui io, che venivo rimproverato di essere “al cavèster” del quartiere, perché spesso mi beccavano a scalare gli alberi per saccheggiare i nidi di uccello, mi prodigavo a praticare questo gioco pur di fare coppia con una ragazzina che mi piaceva. La preferivo bionda, ma mi accontentavo. Formavamo la coppia mista per simpatia, non contando sulle capacità, ma sul gonnellino più o meno corto, sui calzettoni più o meno stretti; in attesa che lei si piegasse di schiena o di gambe liberando alla vista 1/2 cm di pelle in più del solito. Se poi quella mi abbracciava, quando per caso vincevamo contro un’altra coppia, beh, era il Paradiso (da qui uno dei nomi del gioco).
Il massimo della tempesta ormonale si aveva con la variante che chiamavamo “brùsia”. La mia ragazzina veniva bendata e io la teneva per mano e la guidavo a lanciare il sasso e a saltare senza toccare le righe. Se non ci riusciva, dalle coppie avversarie si levava beffardo l’urlo “Brùsia!”
Raccontato così sembra un gioco proibito, ma chiudete gli occhi, ritornate ragazzini senza il bombardamento di immagini “volgari” dei giorni nostri: rivivrete la smania della scoperta, della curiosità di conoscere l’altra metà del cielo senza malignità, e sentirete solo il cuore che accelerava.
Scusate, questo non c’entra niente con lo sport. Ma ero in un momento di grave nostalgia.