In viaggio con Emergency

Chiara Chiessi, ostetrica volontaria in Afghanistan

Come tante ragazze della sua età, la ventisettenne Chiara Chiessi ha lasciato l’Italia terminata l’università.
Come darle torto: in un Paese dove il calo delle nascite non conosce rallentamento, il futuro non è roseo per una neo ostetrica.
Partita da Correggio alla volta di Londra, dove vive e lavora ormai da cinque anni, ha passato gli ultimi cinque mesi e mezzo in una lontana regione dell’Afghanistan, insieme ad Emergency.

Chiara! Come sei finita in Afghanistan? Inizia a scarseggiare il lavoro anche a Londra?
«No, no, a Londra si lavora sempre tanto!
Ho sempre avuto però il desiderio di fare un’esperienza del genere e quest’anno ho deciso di partire per il periodo di sei mesi che solitamente viene proposto ai volontari».

In viaggio con Emergency
Chiara Chiessi

Perchè proprio con Emergency?
In che zona dell’Afghanistan sei finita?

«Ho scelto Emergency perché ciò che propone è un progetto di accompagnamento alle figure sanitarie locali: non si va in un luogo per sostituirsi a chi ci vive, ma per portare quello che si sa e metterlo a disposizione.
Sono partita in estate per la Valle del Panshir dove si trova un ospedale costruito da Emergency: è nato come centro chirurgico per i feriti di guerra e delle mine ma recentemente è stato ampliato inserendo anche il centro maternità. È un servizio importantissimo perché la mortalità materna è altissima in Afghanistan, così come quella infantile. Non è l’unica struttura in questa regione di circa 250000 persone, ma è l’unica specializzata e completamente gratuita.
Diverse donne viaggiano in condizioni difficili anche per otto o nove ore pur di arrivare al nostro ospedale!».

Qual era il tuo ruolo in questo progetto?
«Io e l’altra ostetrica “internazionale” di Emergency dovevamo affiancare, coordinare e supervisionare il personale locale. Ci alternavamo nei giorni di reperibilità e affiancavamo le ostetriche e le infermiere del posto: tutte molto giovani e con una breve preparazione alle spalle, ma con tanta voglia di imparare!».

Una bella responsabilità. Raccontaci una tua giornata tipo in Afghanistan!
«Tra le 7.30 e le 8.00 io e l’altra ragazza arrivavamo in ospedale, distante due minuti a piedi dalla struttura che ospita gli internazionali. Anche se così breve, in questo tratto eravamo sempre accompagnate da due uomini per questioni di sicurezza e per non dare troppo nell’occhio.
La giornata si svolgeva interamente in ospedale per poi tornare a casa la sera, chiacchierare con gli altri ospiti e andare a letto abbastanza velocemente perché 12 ore di ospedale sono impegnative, sia fisicamente che mentalmente».

Immagino che avrai portato sempre il velo.
«In realtà no, lo portavo solamente nel tragitto ospedale-casa e casa-ospedale.
In reparto potevamo stare con il capo scoperto, la divisa era comunque molto coprente, e in casa con gli altri internazionali non era certo necessario indossarlo».

Qual è stato il tuo primo approccio con il contesto afghano?
«Mi ricordo quando mi sono trovata nella sala travaglio la prima volta: una quindicina di donne che urlavano di dolore invocando Allah…è stata proprio una scena d’impatto che mi ha fatto capire di essere in una realtà molto diversa da quella a cui ero abituata. Mi ha colpito molto anche il ritmo di lavoro: qui, come anche a Londra, se hai avuto una “nottataccia” vuol dire che hai fatto 3-4 parti..in Afghanistan se ne fanno anche una ventina! Per renderci conto meglio, un’ospedale dell’Emilia Romagna può fare circa 1500 parti all’anno, dove ero io la media è di 8000!».

DIVERSE DONNE VIAGGIANO IN CONDIZIONI DIFFICILI
ANCHE PER OTTO O NOVE ORE PUR DI ARRIVARE
AL NOSTRO OSPEDALE!

Veramente dei numeri notevoli!
Quanti sono i figli in media per ogni famiglia?

«Le donne con cui sono venuta a contatto hanno mediamente 7-8 figli. Per questo la priorità è quella di evitare il più possibile i cesarei, per non mettere in pericolo la donna per le gravidanze successive. Ho imparato moltissimo sulla manualità di diverse situazioni: parti podalici, parti gemellari, ho visto un po’ di tutto!
Data anche la scarsità di medici, il cesareo è sempre vista come l’ultima possibilità».

Avendo così tanti figli, immagino che la maternità sia una dimensione importante nella vita delle donne e delle famiglie afghane.
«Più che importante, direi fondamentale. In Afghanistan, per lo meno nella zona dove sono stata io, essere mamma è la cosa che ti dà valore come donna: se per qualche motivo non riesci ad avere figli, o per varie complicazioni devi farti asportare l’utero, la tua vita è segnata ed essenzialmente non vale niente. Ricordo una donna con anemia cronica che era arrivata in ospedale in condizioni disperate: nessuno l’aveva mai curata perché sterile. Il marito si era legato ad un’altra donna da cui aveva avuto dei figli e di lei non si era praticamente più occupato.
La gravidanza, la maternità sono vissute in un modo totalmente diverso dal nostro.
Il parto ad esempio è visto come una cosa tra donne, per cui i mariti non sono mai presenti durante il travaglio, durante il parto e subito dopo. Anche per ragioni di privacy, chiaramente, dato che gli spazi obbligavano ad una convivenza che sarebbe stata difficilmente conciliabile con la presenza maschile».

Come vivono le donne afghane l’essere madri?
«Ho visto sia chi è felice di una gravidanza, sia chi arriva stremata in ospedale per l’ennesima volta e ha un rifiuto anche psicologico del bimbo che sta per nascere. Ricordo una donna talmente provata in questo senso che si rifiutava di spingere a pochi minuti dal parto.
Tanti sono i matrimoni combinati, pochi sono quelli che si scelgono, le dinamiche famigliari sono spesso molto pesanti da vedere per un’occidentale.
In generale però devo dire che mi ha colpita come le donne non siano molto propense a manifestare apertamente le loro emozioni. La sofferenza, la gioia, il dolore, non si riescono mai a leggere in modo chiaro su di loro, sono molto riservate e quindi un po’ imperscrutabili in questo senso».

C’è mai stata qualche situazione particolarmente difficile da gestire?
«Un giorno in reparto si è diffusa una grandissima infezione che ha provocato la morte di 12 neonati in poche ore: una situazione molto dolorosa.
Oltre al dolore però c’è stata tutta una logistica da riorganizzare: per cercare di debellarla abbiamo dovuto sgomberare tutto il reparto e in una notte abbiamo pulito tutto con alcol e varichina, dai mobiletti alle fughe delle piastrelle. Abbiamo allestito in una saletta un pronto soccorso ginecologico e in poco tempo siamo stati in grado di riaccogliere tutti».

Ci dai il tuo bilancio di questa esperienza? Prossima destinazione?
«Bilancio assolutamente positivo, sia dal punto di vista professionale che umano torno veramente arricchita. Non escludo di poter ripetere una cosa del genere, ma è stata molto intensa e adesso ho bisogno di lasciar sedimentare quello che ho vissuto. Adesso devo tornare a Londra, dove devo cercare una nuova casa e nuovi coinquilini. Praticamente un nuovo inizio!».

E, con una storia così alle spalle, che nuovo inizio sia… come dicono in Afghanistan, “inshallah!” (Se Dio vuole!)

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