Giulio Taparelli

In silenzio ci ha lasciato un vero signore

Giulio Taparelli: un artista istintivo

Se n’è andato in silenzio, come voleva lui, senza clamore e senza ritualità. Giulio Taparelli aveva cultura, stile, estro, genialità e una gran classe. Era un “signore” come non ne esistono più. Figure di questa caratura lasciano un grande vuoto, segnano la fine di un’epoca.
Eravamo amici e mi è stato chiesto di ricordarlo. Sono stato molto dibattuto.
Lui non avrebbe voluto che scrivessi su Primo Piano, visto da lui come un periodico di partito, legato ad una Amministrazione Comunale che per molti anni ha percepito come ostile.
Poi mi sono convinto a farlo.
Ho sentito un grande interesse nei confronti di questo strano artista, geniale e riservato.
Poi il giorno che è apparsa la notizia della sua scomparsa sui giornali, Germano Nicolini ha telefonato commosso ad Elisabetta Taparelli per farle le condoglianze. Una telefonata importante e piena di umanità, come lei, la figlia di Giulio, mi ha riferito. Germano e Giulio erano stati a scuola insieme e poi la vita li aveva divisi in esperienze lontane con idee e riferimenti molto diversi, ma avevano mantenuto una stima e un rispetto reciproco. E mi piace pensare che ci sia, dopo tanti anni, un tempo in cui le divergenze e le tensioni si stemperano e prevalgono i sentimenti e gli aspetti umani.
Ho così recuperato un’intervista che avevo fatto a Giulio in occasione del suo 97° compleanno.
Un’intervista irrituale, quasi impossibile. Eccola.

Giulio, ma oggi compi 97 anni!
«Io sono già morto da tempo, da anni… e adesso il mio non è un vivere, mi muovo in una nebulosità che non mi dà soddisfazione. Io sono proprio morto. Niente ha più importanza. Quando si è vecchi, un giorno vale un anno e un anno vale un giorno. Si diventa imbecilli… abbiamo delle limitazioni che sono derivate dalla decadenza del corpo fisico e di conseguenza anche del poco cervello che rimane».

E dall’alto dei 97 anni cosa vedi?
«Vedo che c’è poca speranza perché la vita di quelli che hanno la mia età è stata una vita dura, dura. Io sono nato per avventura a Modena perché mio padre cambiava spesso residenza, era un eclettico, un uomo con mille teste. A Correggio sono venuto quando facevo la seconda elementare, poi andai al Ginnasio ma non avevo una gran voglia di studiare e non mi prendevo con i professori.
All’università mi sono iscritto a Storia e Filosofia a Bologna ma dopo il primo anno sono stato chiamato per andare in guerra: Battaglione Edolo, spedizione in Russia. Un’esperienza tremenda, abbiamo fatto circa 200 km a piedi fino al Don e abbiamo incontrato i tedeschi che si ritiravano.
Dopo alcuni anni che sono tornato mi sono laureato e nel 1947 mi sono sposato. Volevo fare il giornalista ma non c’erano concorsi. Allora ho fatto un po’ di esperienza in un cementificio e poi piano piano sono entrato in Italcementi e ottenuta la fiducia del vecchio Pesenti sono diventato responsabile commerciale».

Casa di Giulio TaparelliCome è nato il tuo interesse per la storia locale?
«Quando ero ragazzo ho avuto la fortuna di conoscere al liceo un professore bravissimo, Rubini, che mi ha stimolato a fare ricerche: andavo in campagna, parlavo con i contadini. Non avevo niente. Né macchina fotografica, né registratore, non esisteva ancora, scrivevo delle note su dei bigliettini che poi, quando sono andato a soldato, mia madre ha raccolto e riposto in un cassetto. E li ho ritrovati. Ho sempre avuto passione per le storie correggesi».

E invece la vena artistica?
«Nella nostra famiglia c’è sempre stata una vena artistica, a cominciare da Massimo d’Azeglio che era un pittore; mia sorella era una bravissima pittrice, un mio zio… Io quando ero un bambino non studiavo, ero un ribelle, ma mi piaceva fare delle macchine con il fil di ferro, che avevano degli ingranaggi, dei movimenti. Al liceo disegnavo le caricature ai professori e questo mi costò delle grane con l’allora ridicolissimo preside Arata».

Qualcuno ti considera un falsario, qualcuno un naif.
«Io non ho uno stile. Non sono un pittore. Seguo il mio istinto, cerco di dare forma a quello che ho in testa e fin che non ci sono riuscito non sono contento. Lavoro in modo strano: mi viene in mente una cosa e mi martella finché non la realizzo. La mia è un’arte istintiva, dipingo quello che vedo quando penso. I colori me li preparavo io, prendevo le polveri e facevo anche l’inchiostro con il sambuco. E poi scrivevo con le penne di gallina. Faccio le cose per mia soddisfazione. Non me ne frega niente che le cose piacciano agli altri. Quando mi vengono in mente le faccio e poi le lascio lì».

La tua villa in via Carletti è affascinante da un punto di vista paesaggistico e architettonico ma, per chi ha la fortuna di visitarla, lo è ancora di più perché custodisce le tue creazioni. Non solo quadri o sculture ma vere e proprie installazioni come le Stanze della Donna che ha peccato con il San Burtidor
«C’era una donna anziana, Zelinda Pirondini che veniva a fare il bucato a casa mia e mi raccontava storie di malefici, di strane pratiche, di aborti. Il problema era molto sentito nelle campagne; molte donne vi ricorrevano e a volte morivano per infezioni, per setticemia. Dall’insieme di queste cose mi venne in mente di creare il San Burtidor, il santo che fa abortire. Così ho decorato alcune stanze con scene a tema e poi ho dipinto un bel santo giovane su un’asse di legno.
Di fronte vi ho posto un inginocchiatoio con a fianco due candelabri. La donna che ha peccato deve accendere le candele e poi inginocchiarsi per pregare il santo. Mentre lei prega con una leva si può far scattare un meccanismo che da dietro l’asse fa cadere lo scheletro del santo addosso alla povera peccatrice. L’abbraccio dello scheletro provoca un trauma così forte che la donna perde il bambino».

E la Cameraccia dell’Abate Cavalcoli?
«Nella villa c’è una chiesetta e sopra c’era la camera del prete. Durante i lavori di sistemazione furono fatti dei ritrovamenti ai quali mi sono ispirato e ho ricostruito questi fantocci, uno l’ho dedicato all’Abate Cavalcoli. Sono fantocci meccanici che si muovono, con un sistema di corde e carrucole, all’apertura della porta della cameraccia. Fanno movimenti semplici ma muovendosi contemporaneamente generano un grande stupore. Sembrano morti che risorgono! Quando si prende confidenza con l’ambiente ci si accorge che l’Abate Cavalcoli è sospeso a mezz’aria sopra di noi: una corda pende dal suo corpo e se la tiriamo assistiamo ad una istantanea e paurosa erezione! Un’ironia irriverente pervade ogni figura!»

Queste figure hanno affascinato e divertito lo scrittore Giuseppe Pederiali che ne parla nei suoi libri.
«Giuseppe è venuto più volte nella villa, voleva visitare ogni angolo e poi ci sedevamo davanti al camino, di fianco al servo muto e io gli raccontavo le mie storie. Gli piaceva ascoltare e cercare collegamenti con quelle di Finale Emilia».
Ci sarebbero mille altre cose da raccontare e da scoprire. Ma raccontaci i tuoi progetti per il futuro.
«Io vivo il presente. Non ho aspirazioni. Mi alzo al mattino e faccio quello che mi viene voglia di fare. A volte delle coglionate, che poi perdo. Molte cose che ho scritto o dipinto non so nemmeno dove sono».

Vedo che avevi già scritto il tuo epitaffio nel 1994 ventun anni fa. Ogni anno dici che muori e non muori, anzi, com’è la storia?
«La mia grande amica è sempre stata la morte, perché sono sempre rimasto impressionato da tutta quella gente che ho visto morta, sbudellata, cosa di cui non voglio parlare. Sono sempre rimasto affascinato dall’idea della morte e la tengo come una civetta sopra la spalla sinistra. Io mi faccio cremare. Non vado in chiesa, non voglio mortori… non faccio niente. E finida lè».

Giulio negli ultimi tempi aveva capito di essere ammalato ma aveva rifiutato ogni accanimento terapeutico. La malattia lo aveva svuotato e lo aveva privato delle sue abilità artistiche: per lui era una grande limitazione. Ha accettato il suo calvario con coraggio e anche un po’ di quell’ironia di cui solo lui era capace. Saputo di un funerale in via Filatoio, ha scritto un racconto sulla morte: era venuta nella sua via per prenderlo, ma aveva sbagliato porta…

Epitaffio scritto per sé da Giulio Taparelli

Ier dla l’è mort Giuli Taparel
come sia ste nisun al sa,
o sn’è adè
l’era més c’me un olem tamban
l’iva mucè
più ed nuvanteset an
al d’giva d’eser stuf
ed scamper in ste mond
ed leder e farabut
la mort, so granda amiga
a l’a purtè via seinsa fadiga.

Ieri l’altro è morto Giulio Taparelli,
come sia stato nessuno lo sa,
o se n’è accorto
era messo come un olmo bacato
aveva ammucchiato
più di novantasette anni
diceva di essere stanco
di campare in questo mondo
di ladri e farabutti
la morte, sua grande amica
l’ha portato via senza fatica.

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