In morte di una grande cooperativa

Un po’ di chiarezza sulla vicenda UNIECO

È fisiologico che un’impresa nasca, si sviluppi, cambi di forma; e che prima o poi muoia. E non c’è nessun tipo di “controllo”, per quanto autonomo, che lo possa impedire. I controlli servono a evidenziare i rischi, non a eliminarli. Altrimenti non ci sarebbe il rischio imprenditoriale che sta alla base del mercato. E che non riguarda solo chi può perdere il capitale ma anche chi può perdere i crediti o il lavoro: un’azienda che fallisce produce una drammatica distruzione di ricchezza economica e sociale. A differenza delle imprese private, quando questo capita ad una cooperativa c’è sempre chi mette in discussione i comportamenti di tutte le altre cooperative.
Nel caso delle cooperative, in più, sorge la questione del prestito sociale. Metterlo al riparo da rischi tenendolo liquido in banca è assurdo: è stato istituito dalla legge per aiutare la cooperativa, per sua natura povera di capitali, a sostenere gli investimenti. Pensare ad una forma di garanzia è altrettanto assurdo: diventa troppo costoso per l’impresa, che quindi vi rinuncerebbe. L’unica possibilità è quella di restituirlo ai soci alle prime avvisaglie di difficoltà (UNIECO è riuscita a restituirne il 40%), perché dopo viene giustamente osservato con attenzione dagli altri creditori che possono tutelarsi. Oppure di non sollecitarlo dove non è strettamente necessario. Nelle grandi cooperative di costruzioni, in realtà, il prestito dei soci aveva un ruolo marginale tra le fonti di indebitamento, tanto che veniva considerato più un servizio ai soci per remunerare i loro risparmi meglio delle banche. Non si è percepito a sufficienza che in questo modo quei risparmi venivano esposti al rischio d’impresa; come nella vecchia vicenda di Giza spa che a suo tempo impoverì molti correggesi. E tuttavia non si può demonizzare uno strumento utile: bisogna che il risparmiatore sia in grado di distinguere tra impresa e impresa, tra rischio e rischio, come già fa normalmente gestendo sul mercato finanziario i propri risparmi.

Poi ci sono le cause, o, come amano dire i giornali, «le colpe» di un fallimento. Se l’impresa non viene distrutta da un cataclisma naturale, è ovvio che ci sono cause del dissesto legate alle scelte o alle non scelte dei dirigenti. L’inadeguatezza è un concetto relativo: per esempio è indiscutibile che i dirigenti delle grandi cooperative di costruzioni siano stati in genere adeguati nella fase di crescita del mercato e sviluppo dell’impresa. Nel primo decennio di questo secolo l’UNIECO ha più che triplicato la produzione, entrando nel gruppo delle dieci principali imprese del settore a livello nazionale; ha aumentato del 50% l’occupazione diretta e ha incrementato il patrimonio netto da 50 milioni di euro a 300. E però lo stesso gruppo dirigente nella crisi è risultato inadeguato. Non una crisi qualsiasi, bensì quella che dura da un decennio e ha portato il settore delle costruzioni alla perdita di due terzi delle capacità produttive e alla scomparsa di migliaia di imprese di tutte le dimensioni. Le imprese che se la sono cavata hanno dimostrato di avere un posizionamento strategico meno esposto ai fattori di questa crisi, risultato di decenni di scelte imprenditoriali diverse.

A partire dal 2010 sono crollati i tre pilastri su cui si era sostenuto lo sviluppo del settore edile: la casa come bene di investimento dei risparmi privati (per la perdita di fiducia delle famiglie); la finanza pubblica a sostenere i programmi di lavori pubblici (bloccati dalla crisi del debito nazionale); il sistema bancario che accettava le garanzie immobiliari (e che smise di colpo di accettarle). Nel 2011, votando il bilancio 2010 che esponeva ancora un utile di 13 milioni di euro, i soci dell’UNIECO, come delle altre cooperative del settore, approvarono la scelta di resistere, cioè di privilegiare l’occupazione rispetto al patrimonio, secondo una logica non speculativa ma coerentemente mutualistica. Tanto che la cooperazione sottolineava con orgoglio che proprio in questo stava la differenza tra le imprese cooperative e quelle che portavano altrove i patrimoni. I dirigenti poi si aspettavano un’attenuazione della crisi, basandosi sulle proprie esperienze precedenti. Ciò ha portato alla difesa del fatturato (acquisendo lavori in perdita con tempi di riscossione assai incerti e imbarcandosi nei cosiddetti project, che voleva dire indebitarsi a fronte di ricavi ipotetici più che decennali); alla vendita, per fare cassa, di quei settori aziendali che avevano una prospettiva; all’uso molto ritardato della cassa integrazione e della riduzione di addetti; a piani di consolidamento finanziario per sostenere un patrimonio che si sarebbe rapidamente svalutato. Nel bilancio del 2012 la perdita fu di 78 milioni, in quello del 2013 di 60 milioni. Ormai, era troppo tardi: il “tempo” è un fattore determinante in ogni vicenda imprenditoriale.

Se ci limitiamo alla gestione della crisi dobbiamo chiederci: cosa avrebbero dovuto decidere i soci nel 2011? Col senno di poi, forse bisognava ridurre drasticamente il fatturato edile, alienare con forti minusvalenze gran parte del ramo immobiliare, riconvertire tutte le risorse nei settori di prospettiva che pur c’erano in cooperativa (ambiente, infrastrutture ferroviarie, energia e impiantistica avanzata), rinunciare a qualsiasi lavoro pubblico in perdita. Le conseguenze sarebbero state di un drastico ridimensionamento del fatturato e dell’occupazione, un ricambio non solo di tutto il gruppo dirigente ma anche di parte dei quadri e degli addetti, con l’ingresso progressivo di esperienze diverse da quelle dell’edilizia. In questo modo si sarebbe potuto avere non tanto minori perdite quanto una gestione credibile dell’indebitamento. Poiché manca la controprova, ognuno può valutare quanto queste scelte sarebbero state efficaci e, soprattutto, se erano possibili in una assemblea di soci-lavoratori all’inizio del 2011.

Infine c’è l’aspetto dell’etica cooperativa. Sarebbe opportuno che 70 anni di servizio ai soci, ai dipendenti, alle loro famiglie e all’intera comunità di questi territori non venissero giudicati solamente alla luce degli ultimi 5 anni. Tra l’altro UNIECO non aveva dirigenti paracadutati dalla politica (se si è di diverso parere bisogna fare i nomi), aveva diversi controlli autonomi (collegio sindacale, revisioni ministeriali, certificazioni di bilancio, bilanci sociali certificati fin dal 2000), destinava risorse a solidarietà locale e internazionale, investiva molto in formazione e in strumenti mutualistici, non strapagava i dirigenti, era in prima fila nell’aiutare cooperative in crisi e si faceva carico di iniziative pubbliche sul territorio. Era collaterale alla politica? Non di più del resto del settore delle costruzioni in Italia e, ritengo, in modo più trasparente. È finita la cooperazione di lavoro? A rispondere possono essere solo i soci/dipendenti delle cooperative che competono oggi sul mercato, e che in altri settori economici competono molto bene.

UNIECO nasce nel 1985 dall’unificazione della cooperativa correggese UNICOOP con la reggiana IRCOOP. La stessa UNICOOP si era costituita nel 1975 attraverso l’unificazione delle piccole cooperative muratori di Campagnola, Rio Saliceto e Bagnolo con le quattro storiche cooperative correggesi: “Braccianti”, “Edile e Stradale”, “Muratori e Manovali”, e “Fornaciai di Fosdondo”. La richiesta di liquidazione è scattata per l’impossibilità di ottenere un ulteriore concordato con le banche. Perdono il lavoro i 342 dipendenti rimasti dei 1400 dichiarati a fine 2014; ed è a forte rischio il residuo prestito dei soci per 12 milioni di euro.

Condividi:

Leggi anche

Newsletter

Scroll to Top