Questo mese la firma eccellente che porta un contributo di livello nazionale a Primo Piano è quella di Riccardo Staglianò, autorevole giornalista del quotidiano La Repubblica, nonché autore di libri e reportage sul tema del lavoro. Staglianò è stato ospite di “Primo Piano – Incontri” nel giugno del 2019, quando trattammo dell’intelligenza artificiale. Abbiamo parlato con lui degli effetti della crisi economica prodotta dai lockdown sul lavoro.
Una delle grandi novità della pandemia è stata di aver sdoganato lo smart working (lavoro agile): che giudizio ne dà?
«Una metodologia semplice che ho applicato con successo in questi ultimi anni è che quando, parlando di lavoro, si usano parole inglesi facilmente traducibili in italiano, c’è qualcosa sotto. Jobs Act (legge sui lavori) è un esempio. Un altro è la sharing economy (economia della condivisione) dove la condivisione non esiste affatto. Altro ancora è chiamare rider i ciclofattorini che ci portano la pizza a casa. Al netto di questo avvertimento linguistico, molto dipende da che evoluzione il cosiddetto lavoro agile prenderà…».
Cosa teme?
«La prima volta che ho incrociato “Zoom” (il più evoluto programma di videoconferenze), ormai 5-6 anni fa, ero in un’azienda di gran successo della Silicon Valley e quando arrivai nella reception per intervistare l’amministratore delegato non c’era nessuno, se non un iPad montato su un trespolo. Dopo i primi attimi di sbigottimento, l’iPad si accese e apparve una signora di mezz’età che mi chiese chi fossi e cosa mi servisse. L’amministratore delegato mi spiegò poi che la signora lavorava da casa, da Boston, e contemporaneamente faceva l’accoglienza anche dell’altro loro ufficio di San Francisco. “E così risparmio anche uno stipendio”, aveva commentato garrulo. Il trespolo e la tecnologia di videoconferenza erano di Zoom. Non vorrei che fosse questa la direzione che lo smart working prenderà, ovvero di mimare una specie di ubiquità virtuale per cui un unico addetto a distanza farà il lavoro di 2-3 persone».
È una possibilità, ma c’è anche il vantaggio di avere un rapporto più equilibrato tra tempi di vita e di lavoro, no?
«Ma certo. Conosco una giovane madre che, dovendo fare una rassegna stampa quotidiana, prima doveva fare un’ora di viaggio per registrare una trasmissione da 30 minuti e ora l’ha potuta fare con tutta comodità da casa propria. Un altro amico ha portato alle estreme conseguenze la possibilità lavorando da almeno quattro diverse magnifiche località di villeggiatura estiva. Però parliamo di privilegiati, con risorse e lavori intellettuali. Per la maggior parte delle persone ciò non è possibile. Detto questo spero che l’opzione del lavoro a distanza rimanga anche dopo la pandemia».
Da più parti ci sono state accuse, e successive polemiche, sul fatto che portata a distanza la non sempre buona perfomance dei dipendenti pubblici sarebbe caduta a picco. Condivide?
«Il lavoro a distanza richiede disciplina. O, in alternativa, controlli. Né l’una né gli altri sono impossibili da applicare, ma nella pubblica amministrazione… Sin qui il datore di lavoro ha comprato, con lo stipendio, il tempo del dipendente. D’ora in poi la scommessa sarebbe di fargli remunerare, piuttosto, il prodotto del suo ingegno. Più l’esito della prestazione che le ore che ci sono volute per espletarla. Ripeto: non è per tutti, ma si può fare».
Quindi è ottimista? Con un paradosso si può dire che la pandemia ha giovato al lavoro?
«Beh, per il momento non mi spingerei fin lì. Negli Stati Uniti, per dire, la disoccupazione ha raggiunto il 14 per cento, il livello più alto dal dopoguerra. Stiamo parlando di un’ecatombe di posti di lavoro. E, come ha spiegato bene Naomi Klein in “Shock doctrine”, il rischio è che crisi di questa portata vengano usate per far passare cambiamenti radicali, e radicalmente peggiorativi, nella dotazione dei diritti sociali».
Cosa intende dire?
«Che dopo l’11 settembre è passato il “Patriot Act” che faceva a pezzi la privacy dei cittadini americani. Dopo il 2008, sulla scia della disperazione economica, sono nate le piattaforme che offrono lavoretti con pochi o punti diritti, da “Uber” alla consegna del cibo a “Airbnb”. E mi chiedo: adesso quale ulteriore arretramento possiamo aspettarci da questa immane crisi che stiamo attraversando? Qualcuno, senz’altro, ci starà pensando, al motto churchilliano di “mai sprecare una buona crisi».
Non sarà troppo sospettoso?
«Non credo, basta ripercorrere la storia. Nel 2008, di colpo, la disoccupazione in America era raddoppiata al 10 per cento. Molti di quelli che non avevano perso il lavoro avevano avuti i salari decurtati. I risparmi privati furono in breve dimezzati. Se si sommano tutti questi addendi ci si rende conto del perché fosse particolarmente improbabile essere schifiltosi davanti a un qualsiasi lavoretto. Prima di quell’improvviso impoverimento nessuno avrebbe trovato normale usare la propria auto per scarrozzare persone (Uber) o la propria casa per ospitare sconosciuti (Airbnb). Non a caso quelle piattaforme nascono tutte all’indomani del 2008. Cosa nascerà nel 2021? Non lo sappiamo, ma la crisi è la peggiore di sempre e non credo che andrà sprecata».
Una cosa paradossale, in questo contesto, è l’ottimo andamento di Borsa negli Stati Uniti. Come se lo spiega?
«È la prova definitiva che le sorti dell’economia reale e di quella finanziaria sono totalmente disaccoppiate. Ha ragione. Mentre il mondo va a rotoli, Wall Street macina i record di tutti i tempi. Una parte importante la fa la politica, con Trump che ha messo una pistola alla tempia al governatore della Federal Reserve Powell per far sì che, abbassando il costo del denaro e assicurando un aiuto illimitato alle imprese, sostenga la Borsa. Ma il risultato ci fa tornare al parallelo con il post 2008. Anche allora lo stimolo finanziario fece sì che non convenisse, come oggi, investire nelle obbligazioni di lunga durata ma piuttosto nelle azioni. La cosa nuova e promettente, a quell’epoca, fu la cosiddetta sharing economy o on demand economy. Adesso, verosimilmente, arriverà una cosa ancora più nuova su cui punteranno i grossi investitori in cerca di opportunità. Lo scopriremo presto».