Una delle vie del centro di Correggio mi accoglie in una giornata di sole. Davanti al portone di Casa Sirena mi aspettano Gianna e Claudio.
La sirena ammalia: il suo canto distrae dagli scogli nascosti, distrae dal naufragio. La sirena attrae per distruggere. Chissà se Omero aveva pensato alla droga, mentre cantava delle donne-pesce e del cerume di Ulisse.
Questo è il primo significato di sirena: un essere mitologico.
Il secondo significato è quello di allarme: il lampeggiante blu che mette in allerta. La sirena che rende attenti, invece che distratti.
A quale di questi due significati hanno pensato i volontari che, esattamente 20 anni fa, nel febbraio 1996, hanno ricevuto in comodato gratuito questo appartamento dalla parrocchia di San Quirino?
Campanello d’allarme o tentazione di naufragio?
In entrambi i casi, il nome è giusto per una casa che accoglie i ragazzi vittime della sirena della droga.
Dal 1996 al 2011 la casa è stata destinata a chi entrava nel progetto di recupero del CEIS. Poi per un paio d’anni ha accolto chi usciva dal progetto. Oggi continua la sua vocazione alla solidarietà accogliendo i profughi che hanno navigato le stesse onde di Ulisse.
Come mai la casa non accoglie più gli schiavi delle droghe? Ce ne sono meno? O se ne parla meno?
«Ce ne sono di più di quanto si pensi- risponde Claudio, volontario presso il CEIS da un decennio e in pensione da un anno -soprattutto a livello di canne: la cannabis non è una droga leggera. Forse lo è stata, negli anni ‘60: oggi il principio attivo è diverso, molto più concentrato. Il business della malavita studia la composizione della sostanza in modo da concentrare tante dipendenze in un solo prodotto. È cambiato il modello di riferimento: la cannabis è stata sdoganata…» e in mente affiorano i testi di cento canzoni, una manciata di serie tv, alcuni giardinetti di fronte alla guardia di finanza «…la droga è sottovalutata: i genitori che incontriamo sono ex-consumatori, che hanno smesso le canne insieme all’adolescenza, e sono portati a considerarlo un peccato veniale dei loro figli».
Claudio e Gianna non incontrano i tossicodipendenti: incontrano le loro famiglie.
La sofferenza di genitori, fratelli, sorelle che hanno visto lo sguardo dei loro cari appannarsi, hanno sentito le loro risposte cattive, hanno incassato i loro colpi.
La costante di ogni dipendenza è l’aggressività.
Ogni mercoledì di tutto l’anno alle 20,30 in via Codro a Reggio Emilia (0522-293036) c’è un incontro aperto dove i famigliari trovano l’aiuto che desiderano.
«Per non sentirsi soli» aggiunge Gianna.
Non sentirsi soli è il motivo che porta quasi tutti gli schiavi della droga a farne uso. Per lo più sono maschi, ma non solo; di ogni estrazione sociale e familiare; di età compresa fra i 16 e i 24 anni, ma con un ritorno dopo i 40. Per non sentirsi soli.
Il miglior antidoto alle droghe sono gli amici. Banale a scriverlo, per nulla a viverlo.
Dalla nausea delle canne al bruciore della cocaina, passando per il vomito dell’eroina e la bava delle pasticche, ogni tipo di droga illude di superare i problemi relazionali: allenta i freni inibitori, fa sentire più sicuri di sé, più simpatici, più brillanti. Ottenendo il contrario.
“Voler essere come gli altri” è la formula magica del demone della solitudine.
Che ottiene il suo scopo: il tossicodipendente perde tutti gli amici, è indesiderabile, è preso in giro, dimenticato.
Da quanto capisco del racconto di Claudio e Gianna, drogarsi non è sbagliato perché lo dice la legge, il catechismo o la mamma: drogarsi è sbagliato perché non funziona. Non raggiunge gli obiettivi che si pone.
La droga dice le bugie: «di canne non è mai morto nessuno» – bugia – «se non mi sballo non mi diverto» – bugia – «smetto quando voglio» – bugia.
Sono gli esempi che mi fa Claudio.
E le leggi non sempre aiutano, mi raccontano i due volontari. Ad esempio la legge sulla privacy, che impedisce ai genitori di sapere come stanno i figli maggiorenni.
«Io posso fare quello che mi pare» – bugia. «Tu puoi fare quello che ti fa bene».
È un modo di pensare che deriva da una patologia della legge della privacy: io faccio quello che mi pare e tu non mi puoi dire niente, perché c’è la privacy. Le droghe sono legate a doppio filo all’individualismo: «se io voglio drogarmi, a te che te ne frega?».
Generando un sistema di morte.
Per questo me ne frega.
Leggendo “Zero Zero Zero” di Saviano, ad esempio, sappiamo che la cocaina uccide in tutta la sua filiera: chi lavora nei campi di coca del Sudamerica non se la passa meglio di chi visse in certi campi di concentramento. Poi, la coca uccide quando viene sintetizzata: i fumi chimici sono letali.
Uccide durante il trasporto: un ovulo di cocaina che si rompe nello stomaco nel volo Bogotá-Milano t’accoppa fra sogni artificiali e crampi alla pancia. Poi continua ad uccidere nelle piazze di spaccio, conquistate a bossoli. Uccide durante l’assunzione, se è stata tagliata con detersivo, calce o gesso. Infine, uccide dopo l’assunzione, lentamente, ogni giorno: «sindrome dissociativa e disturbi di personalità sono fra le possibili conseguenze dell’uso continuativo di cocaina, ma anche della cannabis». Concludono Gianna Cattini e Claudio Riccò.
Lascio casa Sirena con i sensi all’erta. Saluto Claudio e Gianna: ogni giorno accompagnano le famiglie schiavizzate dalle droghe. Si fanno carico della sofferenza nascosta dei famigliari, che non soffrono meno di chi è schiavo.
E nessuno ne parla più.
Nemmeno i giornali fanno compagnia alla solitudine degli schiavi della droga.
Dante descrive il fondo dell’Inferno come un lago ghiacciato, in cui le anime dei dannati sono bloccate in eterno. Lo stesso Lucifero è un automa-zombie senza relazioni: non dice una sola parola al poeta, nemmeno quando il poeta si appende al pelo dei suoi lombi.
Ibernato nella solitudine della sua arrogante privacy: Dante, già 500 anni fa, aveva intuito l’inferno che diventa la famiglia di un tossicodipendente.