Maurizio Crosetti, torinese, è un giornalista e scrittore. Si occupa di cronaca e soprattutto di sport.
Per La Repubblica, dove è inviato speciale, racconta da tanti anni i principali eventi sportivi.
Ha pubblicato vari libri, tra cui:
Il suo nome è Fausto Coppi (2019), la biografia di Giorgio Chiellini “Io, Giorgio” (2021), Quando uccisero Maradona (2021), La coppa più bella del mondo (2022).
Ha pubblicato anche la raccolta I Sogni di Friz, contenente favole per bambini.
Uno smartphone, una connessione, una tastiera. Un giornalista? A occhio non basta. In tempi di informazione “orizzontale” sempre più ampia (ma l’approfondimento richiede un minimo di impegno in chi scrive e in chi legge, dunque di verticalità), con un flusso a ciclo continuo di notizie, ma soprattutto di false notizie, commenti, immagini superflue, esibizionismi vari, frustrazioni e livori, l’illusione che le autostrade digitali possano sostituire il modo più classico e tradizionale di informare la gente è forte, e purtroppo riguarda anche molti tra noi giornalisti. Ma così non è.
La modernità tecnologica, peraltro una realtà anche molto preziosa per come ci può facilitare le cose (anche se non di rado le complica) porta alcuni giornalisti ed editori, purtroppo molti editori, a confondere strumento e contenuto. Le scorciatoie della rapidità stanno minando le basi dell’approfondimento: sempre più opinioni e sempre meno fatti, in Rete specialmente. Sempre più immagini, sempre meno parole. Tanti pensano, ormai, che il giornalismo funzioni come Instagram, Facebook o Tik Tok: uno spunto superficiale, una manciata di parole quasi sempre emotive e non richieste, uno scatto e voilà, l’informazione è servita. E in effetti, lo è: servita malissimo.
Il rischio di apparire nostalgici dinosauri di carta è forte, però lo corriamo volentieri. Siamo consapevoli che in Italia stanno chiudendo le edicole e che i giornali di carta sono oggetti in via di estinzione. Ma i loro contenuti, se trasferiti seriamente e professionalmente su tablet e smartphone vari, possono restare importanti e solidi. Ma se, invece, si segue l’onda dei social sarà difficile salvarsi dalle fotogallery di gattini o bambini che ruzzolano mentre mangiano il gelato, tra le risate di genitori, zii e nonni lì pronti a filmare (beh, i nonni speriamo di no). Confondere medium e messaggio è assai pericoloso, perché il messaggio è sempre proposto da un medium. I canoni del giornalismo vero e scrupoloso (andare, guardare, verificare e raccontare) non sono merce trattabile, e non possono cambiare soltanto perché il flusso viaggia su Internet e non più nei rulli delle rotative.
Confessiamo di essere dei poveri boomer, ma questo è il mondo che abbiamo visto e in parte creato, producendo con le nostre mani il nostro stesso fallimento. Non ci siamo accorti per tempo che regalare per anni l’informazione su Internet avrebbe distrutto i giornali: del resto, perché mai la gente dovrebbe pagare qualcosa che per tanto tempo ha avuto gratis? E poi, vivaddio, con un semplice clic su Google possiamo sapere tutto, no? Pazienza se la stragrande maggioranza di questo materiale giornalistico è spazzatura. Chi se ne accorge? Chi se ne preoccupa?
Viviamo l’epoca degli influencer e in molti ormai li considerano “informatori” attendibili. Se un personaggio noto, con centinaia di migliaia di followers (se non milioni), suggerisce un certo prodotto, vuol dire che quel prodotto vale e fa tendenza. Non è vero per una borsa o una vacanza, figurarsi per una notizia. Così nascono le ormai famigerate fake news che nessuno controlla e che diventano virali in una manciata di minuti, raccontando cose che non esistono o facendo morire persone che sono allegramente in vita, soltanto perché nessuno si è preoccupato di controllare la “notizia” di quella morte. E allora, a cosa dobbiamo credere e a chi?
In teoria, gli editori più affidabili e le “testate” storiche, anche se declinate online, dovrebbero essere ancora degne di fiducia, e in molti casi per fortuna la sono. Ma la moda della velocità ad ogni costo, del gossip da salone di parrucchiere (massimo rispetto per la categoria) e delle insulse interviste a chicchessia, ha preso la mano un po’ a tutti. E certi giornali tradizionali (noi continueremo a chiamarli così) non li riconosciamo più. Perché ormai esiste la diabolica legge del clic, vera sovrana dell’informazione contemporanea: più un articolo viene “cliccato”, dunque visto online, più bisognerà inseguire quell’onda. E così si scelgono e si privilegiano gli argomenti in base all’ascolto, non all’importanza umana, etica, civica e deontologica che sempre dovrebbe guidare la mano, l’occhio, il cervello e il cuore dei giornalisti. Alleati del diabolico clic sono gli algoritmi e la cosiddetta intelligenza artificiale (quanta nostalgia di quella naturale, però): le macchine interpretano all’istante i gusti dei lettori e a loro volta li nutrono, li incoraggiano e li indirizzano. La gente, con rispetto parlando, dà prova di gustare con piacere la merda al sugo d’arrosto? E allora cuciniamone e serviamone in tavola sempre di più.
Se almeno questa tendenza premiasse davvero gli editori, allora potremmo capirla. Non saremmo comunque d’accordo, ma la comprenderemmo. Invece, che succede? Succede che i giornali generalisti perdono sempre più copie, e insieme alle copie anche la loro identità. E allora, perché svenderla in questo modo, se neppure il mercato lo asseconda? Le uniche testate che incrementano gli ascolti, un po’ come sta accadendo anche in politica, sono quelle più estreme, terra di conquista di odiatori e urlatori. Alcune televisioni incoraggiano il fenomeno, dando sempre più spazio a certi biechi personaggi che alimentano sé stessi a ciclo continuo. Andiamo a vedere chi sono gli editori e i direttori di queste televisioni e di questi giornali, e capiremo che si tratta di un progetto pensato e gestito a mente fredda (questi tizi non possono averla che così, fredda, anzi, glaciale) per lucrare e disorientare. Forse il giornalismo non ha mai vissuto un momento più buio e difficile, schiacciato dal peso di una devastante crisi finanziaria, morale e culturale. Abbiamo allevato i doberman, e adesso ci stanno mangiando crudi. Potrebbe andare peggio? Sì, basta avere ancora un po’ di pazienza.