Abbiamo chiesto a Michele Serra, nostro ospite nell’ottobre 2017 alla serata dal titolo “Amaca con vista – Società e politica al tempo del selfie”, di dirci come vorrebbe che il mondo si risvegliasse dopo il lockdown da Covid. Ci ha mandato gentilmente questa sua riflessione con tanto di proposta finale. Noi gli manderemo i nostri cappelletti, ancora più buoni dopo la quarantena. Grazie, Michele.
Ho amato i miei due mesi di clausura, e non me lo aspettavo. Al netto dell’angoscia per l’epidemia, del lutto per i morti, della pena per chi stava male e soffriva, sono tra i non pochi che di quel periodo conserverà un ricordo intenso e grato. Nel “tutti fermi” c’è stato qualcosa di taumaturgico. Pareva una cura specifica, fermarsi, per un mondo afflitto dalla totale incapacità di farlo. Il miracolo, qui e ora, non è “alzati e cammina”. Il miracolo è “siediti e aspetta”.
Avevamo ricevuto l’ordine di non muoverci e di rimanere in attesa di poterlo fare nuovamente. E senza neanche sapere quanto dovesse durare, quell’attesa: era un’attesa indeterminata, vaga, senza garanzie. Qualcuno non ha gradito quell’ordine, ha temuto una lesione della libertà, una minaccia autoritaria. Non ero nel novero, e anzi. Obbedire a un ordine, per giunta un ordine così intrusivo e così drastico, è stata per me, e immagino per molti, un’esperienza decisamente insolita (non ho neanche fatto il militare, sono stato riformato come un gran numero di baby-boomers che minacciavano di intasare le caserme…). Ma dall’obbedienza a quell’ordine, pro-salute pubblica, ho ricavato un sentimento di appartenenza e di rispetto. Ridimensionava l’ego – compreso il mio – come sola bussola del nostro tempo. Per giunta mi piaceva l’oggetto di quell’ordine, che era fermarsi. Fermarsi – vi rendete conto? – nell’epoca dell’accelerazione di tutto, della produzione e dei consumi come solo motore dell’umanità, all’Ovest come all’Est siamo diventati un formicaio immenso e febbrile.
Non avevo mai valutato, prima, le ragioni profonde dei periodi di fermo, di astinenza, di pausa, tipici di quasi ogni religione organizzata. Il sabato ebraico, la domenica cristiana, il lungo Ramadan islamico. Sono ragioni di controllo sociale, certamente, ma anche di igiene psicologica. Devi fermarti. Fermarti e pregare, se credi in Dio, fermarti e pensare, se non ci credi. Devi sospendere il traffico, il daffare, la conta nervosa degli appuntamenti. È un contrappasso, serve al riposo e alla riflessione, serve a recuperare il senso del tempo come qualcosa di vasto e vuoto. Soprattutto vuoto. Vuoto come il cielo senza aerei, come le giornate senza obblighi sociali, come i silenzi che ho condiviso con mia moglie, sotto le stelle infinite, quando la notte scendeva sopra la nostra casa.
So che avrò nostalgia di quel vuoto, e di quel senso di salute ritrovata che la lunga attesa ha portato con sé, come se ogni cosa attorno avesse avuto modo di rilassarsi, non più definita dal suo valore economico, soltanto dalla sua esistenza.
Se fossi un politico importante proporrei di istituire ogni anno, in tutto il mondo, una settimana di lockdown. Garantiti solo i servizi essenziali, tutto il resto deve fermarsi, come per un unico immenso shabbat planetario. Niente saprebbe mettere in sintonia il genere umano come uno stop condiviso, un comune riposo che fermi la macchina e ci lasci in pace con i nostri pensieri. Riacquistato il bene del silenzio, riconquistata la capacità (divina) di non fare niente, e di aspettare niente, si può ripartire, l’ottavo giorno, più energici di prima e molto più saggi.