Nel suo libro “Il Diavolo, il Vescovo, il Carabiniere” Antonio Bernardi racconta in modo puntuale e dettagliato fatti e cronache che caratterizzarono il secondo dopoguerra nel reggiano. “Il Diavolo” è Germano Nicolini, comandante partigiano, che ha scontato dieci anni di carcere, seppur innocente, per l’omicidio di Don Pessina; il “Vescovo” è Beniamino Socche che ha compiuto una vera e propria crociata contro il primo, comunista e sindaco, indirizzando a senso unico le indagini; il “Carabiniere” è il capitano Pasquale Vesce che ha costruito la montatura accusatoria.
Il libro ha il merito di chiarire in modo serio e documentato la genesi e la dinamica di eventi che, ancora oggi, qualcuno cerca di utilizzare strumentalmente a fini politici.
Bernardi fornisce al lettore un’esauriente inquadratura del contesto storico, politico e morale in cui sono maturati quei fatti: l’immagine di un’Italia lacerata in cui convivevano speranze e delusioni; le aspirazioni verso radicali cambiamenti che la Resistenza aveva creato in tanti partigiani; le grandi difficoltà di tanti comunisti ad accettare la democrazia dopo ciò che avevano subito durante il fascismo e il nazismo; il pregiudizio ideologico in corpi dello Stato e autorità della Chiesa per i quali il comunista era il nemico da combattere.
Un libro che non vuole mettere la parola fine sull’analisi storico-politica di un periodo così difficile ma che vuole essere un contributo alla chiarezza, nell’amara constatazione di fondo che solo dopo quarant’anni, a degli innocenti come Nicolini è stata resa giustizia.
Marcello Rossi,
professore di storia e italiano, ITS Einaudi di Correggio
Tante volte nei miei studi e nelle mie letture mi sono immedesimata in mio nonno e più vengo a conoscenza della sua storia, più non capisco come possa essere stato possibile.
Ma sono giunta alla conclusione che l’uomo è in grado di compiere qualsiasi cosa, buona o cattiva che sia, e la storia qui raccontata lo testimonia.
In questa triste vicenda molti sono i personaggi che non hanno, almeno metaforicamente, dormito sonni tranquilli; eppure il mondo va avanti, con torto o con ragione, sempre.
Da questa complessa vicenda ciò che i giovani devono trarre come insegnamento penso sia il credere nella forza della speranza, speranza che ha portato ad una assoluzione tardiva ma fondamentale, speranza che non si è mai affievolita neanche di fronte all’umiliazione.
La storia di mio nonno è una bella e pesante eredità, che non vorrei tenere solo per me, ma raccontare come ho fatto nel documentario “Non camminiamo da soli”.
Il mio compito penso sia quello di coinvolgere i giovani, che oggi più che mai hanno bisogno di nutrire interessi ed appassionarsi a qualcosa, di seguire un esempio credibile.
La “malattia” che oggi ci affligge è l’indifferenza.
Si deve capire che in un mondo così complesso è la partecipazione a un progetto comune e l’interesse per un mondo migliore che deve metterci in moto.
Oggi non prendere posizione, rimanere fermi e passivi, è il comportamento che va per la maggiore, ma non possiamo permetterlo: non possiamo vivere una vita che non abbiamo scelto o di cui non siamo consapevoli. Serve passione e voglia di verità, quella che penso abbia spinto mio nonno anche nei momenti più bui e difficili della sua vita.
Siamo come mulini a vento in grado di creare energia, ma senza vento siamo inutili. Germano penso ci abbia insegnato questo: che per vivere appieno la vita con le gioie e i dolori che questa prevede, serve prima di tutto amarla.
Francesca Nicolini,
studentessa di filosofia all’Università Statale di Milano, nipote di Germano Nicolini