La recente programmazione pubblicitaria del Parmigiano Reggiano, che nei giorni scorsi è passata su tutti i canali televisivi, ha lasciato il segno. Per originalità ed eleganza, si intende: non certo per le polemiche suscitate dall’ultima puntata dello spot/serie circa un fantasioso sfruttamento dei lavoratori che qualcuno ha voluto leggere fra i fotogrammi. Addirittura in tanti si sono precipitati a rispolverare il vecchio ritornello “che se ne parli bene o che se ne parli male, l’importante è che se ne parli”, ipotizzando addirittura un confezionamento ad arte di quella che è stata considerata una grande gaffe. Se così fosse, dovrebbe essere considerata pubblicità indiretta anche la recente trasmissione di Rai 3, Report, che ha messo sotto accusa il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano senza verificare se i fatti a cui hanno fatto riferimento comportino effettivamente un reato od un danno di immagine per uno dei marchi più conosciuti d’Italia. Ma questa è un’altra storia.
Il fatto vero è che sempre più spesso cerchiamo forzatamente di vedere un lato differente della medaglia ed in ogni azione, altrui si intende, facciamo sempre prevalere la teoria della malafede. A causa di questo, purtroppo, i recenti spot televisivi del Parmigiano Reggiano, talmente originali ed innovativi che negli anni a venire faranno scuola, verranno ricordati per il nome del giovane casaro, unico piccolo neo della narrazione.
Innanzitutto, per chi ancora non lo sapesse, ricordiamo che i sei differenti spot del Parmigiano Reggiano, interpretati dal rassicurante e gioviale attore Massimo Fresi, sono stati tratti da un film. Un mediometraggio del noto regista Paolo Genovese, della durata di 25 minuti, dal titolo ‘Gli Amigos’. Lo potete facilmente recuperare in rete nella sua versione integrale e vi consigliamo di farlo, poiché risulta essere un racconto unico che vale veramente la pena di essere guardato. A maggior ragione per noi che la terra del Parmigiano Reggiano la abitiamo e ci fa quotidianamente da cornice.
È fondamentale comprendere come il film sia un racconto molto più complesso di quanto si intuisca dai soli sei spezzoni utilizzati come spot che, per forza di cose, sono il frutto delle esigenze della pubblicità televisiva e dei soli 30 secondi disponibili. Questo ha imposto il sacrificio di tante parti di un racconto completo, pur se essenziale, oltre che moderno e coinvolgente.
A Genovese va dato il merito, senza voler spoilerare, di aver saputo rappresentare tutto e bene: il latte di due munte, i batteri (gli amigos), il caglio, le proteine, il taglio delle due forme, la stagionatura e via di seguito. Ha saputo utilizzare l’arte anche per dire che dietro alla produzione di Parmigiano Reggiano c’è serietà, impegno, sacrificio e senso di responsabilità: il formaggio lo si fa tutti i giorni, 365 giorni l’anno domenica e festivi compresi. Nel film integrale troverete un altro passaggio che si riferisce a questi aspetti ma purtroppo, evidentemente, certi messaggi non sono comprensibili a tutti.
Il casaro è un’artista
È una professione di grande responsabilità e sacrificio. Il casaro che sbaglia il formaggio, così come l’enologo che sbaglia il vino, molto spesso perde il posto di lavoro. Allo stesso tempo però, quello di dar vita ad una forma di Parmigiano Reggiano è un mestiere di grande soddisfazione.
Nel 1960, quando in ogni frazione c’era un caseificio (se non due), a Correggio i caseifici dell’intero territorio comunale erano 24, mentre oggi ne è rimasto una solo; il casaro e la sua famiglia, la moglie in particolare, erano veramente impegnati tutti i giorni dell’anno e, fungendo anche da custodi, non abbandonavano mai la latteria.
Da molti anni invece le cose sono notevolmente evolute: con la crescita di dimensione dei caseifici, anche l’organizzazione e la suddivisione dei ruoli è decisamente migliorata. I cosiddetti “garzoni” sono sempre più di uno ed il capo casaro generalmente è affiancato da un’equipe di casari che gli assicurano momenti di respiro. Ma è giusto che il casaro di Genovese sia chiaramente felice di fare il suo mestiere e che il regista dipinga un quadro realistico. è un ragazzo molto giovane e soddisfatto di avere fatto una gavetta che lo ha portato ad essere il pilastro dell’azienda, con una grande responsabilità sulle spalle: quella di concretizzare il duro lavoro sia dei campi che della stalla. Ogni giorno lavora con fatica sia fisica che intellettuale, ma come minimo vedrà il risultato della sua opera d’arte solo dopo due anni. È felice di continuare ad imparare ma è stato criticato perché lavora troppo, quasi come se il forte senso di responsabilità, lo spirito di sacrificio, la passione e l’entusiasmo profusa in un lavoro che lo appassiona fossero dei difetti. D’altro canto, nelle stalle e nei caseifici gli orari di lavoro e le responsabilità sono quelle, c’è bisogno di gente disponibile, responsabile, diligente, affidabile e costante: i contratti di lavoro riconoscono, anche economicamente, il sacrificio richiesto dal mestiere.
Il fatto che i lavoratori cosiddetti nostrani non siano attratti da questo lavoro può essere comprensibile, mentre è incomprensibile il fatto che quando si parla di queste cose si finisca sempre per tirare in ballo lo sfruttamento degli extracomunitari. Sarebbe bello riuscire a far comprendere ai più scettici che fra il proprietario della stalla e gli addetti alla mungitura, o fra il casaro ed il presidente della latteria, si arriva inevitabilmente ad instaurare un rapporto di stima e fiducia reciproca, che da solo vale mille contratti: questo rapporto di riconoscenza, tuttavia, è comprensibile solo per chi lo vive dall’interno. Allora diciamo che la diligente applicazione dei contratti di lavoro, sia per le aziende agricole che per i caseifici, è totalmente garantita: per poter dar corso a qualsivoglia pratica burocratica, queste realtà sono assoggettate a controlli incrociati interminabili proprio a partire dalle giornate di lavoro, il numero di addetti e via di seguito. Questo vale sia per gli autoctoni che per gli extracomunitari. Questi ultimi non sono chiamati a fare quel lavoro perché costano meno, ma perché accettano mansioni che altri rifiutano. Questo Genovese non lo ha raccontato.