Germano, un uomo dritto come un olmo

Nell’agosto del 1990, con il “Chi sa parli” invocato da Otello Montanari per riaprire i casi oscuri di alcuni delitti del dopoguerra nel reggiano, iniziò, con grande eco mediatica, un percorso che portò alla revisione del processo con il quale Germano Nicolini, il comandante partigiano Diavolo, era stato ingiustamente condannato per l’uccisione di Don Pessina. Nel 1994, ben 47 anni dopo la condanna che lo aveva costretto al carcere per dieci anni, la sua innocenza fu acclarata dal Tribunale.
Il giornalista Michele Smargiassi, inviato di Repubblica, seguì allora tutta la vicenda per il suo giornale. Oggi regala a Primo Piano questo ricordo di Germano, come omaggio per il suo imminente centesimo compleanno.
Grazie Michele.

Trent’anni dopo, nella mia memoria, quella storia ha cambiato epoca. Lo sfondo feroce dei regolamenti di conti del dopoguerra si è trasformato dentro la mia mente nella scena fosca di un dramma elisabettiano. E Germano Nicolini in un Re Lear nobile e perseguitato, o in un anti-Macbeth che paga colpe non sue. Un eroe tragico, col destino scritto nel nome. Quel beffardo nome di battaglia, Diavolo, glielo avevano dato quando lo videro sfuggire dai fascisti scavalcando muri e saltando fossi con una furia soprannaturale. Ma glielo rivoltarono contro, come per un maleficio stregonesco. Chi altri poteva aver ammazzato un prete, se non il Diavolo?

C’entra forse in questa mia impressione il modo in cui la lunga ingiustizia venne alla luce: una agnizione. Due amici d’infanzia che scoprirono di essere legati non solo dall’affetto, ma da un singolare destino: essere uno il figlio dell’innocente, l’altro il figlio dell’omicida. Uno scioglimento veramente degno di una trama di Shakespeare, di Marlowe, di Jonson. Ma c’entra forse, e soprattutto, quella sua figura, di Germano intendo, che già allora mi sembrò romantica, anacronistica. Se proprio avessi dovuto assegnarlo a un periodo storico, gli avrei visto addosso la camicia rossa di garibaldino, ma di quelli originali, uno dei Mille, insomma. E non un picciotto qualunque. Che so, un aristocratico piemontese votato alla causa della libertà della patria dal tallon dell’oppressor. Un personaggio da film di Visconti.

Ci vedemmo alcune volte, nella sua casa ai bordi di Correggio, quando ancora non era chiaro se la verità che invocava da decenni, la verità che “nessuno vuole” come scrisse sulla copertina del suo memoriale, sarebbe mai venuta alla luce. Era appena crollato il Muro di Berlino, la polvere della storia era ancora sospesa nell’aria. Ma in quelle terre reggiane il passato continuava a ostinarsi a non passare. Eppure Germano, con incrollabile fiducia nella giustizia, a dispetto di ogni prova e ragione, continuava a credere che la verità può essere soffocata ma non cancellata.

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