Fine vita: il dibattito prosegue

Alla sagra di San Quirino se ne è parlato con serietà

Il dibattito sul fine vita, con la legge sul consenso informato e sulla dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) giunta alla discussione parlamentare, rimane acceso, soprattutto dopo la morte del Dj Fabo, su cui l’attenzione dei media è stata forte. Anche a Correggio se ne è discusso, nella sala Bellelli, per la serata inaugurale della sagra di San Quirino «D+ Insieme», con due relatori di grande esperienza e competenza: Annamaria Marzi e Paolo Vacondio.

Annamaria Marzi è fondatrice e responsabile dell’Hospice Casa Madonna dell’Uliveto di Albinea/Montericco.

Paolo Vacondio, medico specialista in malattie infettive, è responsabile della Rete locale delle Cure Palliative dell’Azienda USL di Modena.

L’intento della serata, oltre ad offrire un parere competente sul disegno di legge, era di far emergere da chi ogni giorno lavora a stretto contatto con i malati, cosa significa fine vita e accompagnamento alla morte.

Annamaria Marzi ha spiegato che l’hospice è molto più di ciò che la parola evoca nell’immaginario collettivo, molto più di “un posto dove si va a morire” (anche perché il 25% degli ospiti può far rientro a casa dopo un breve periodo presso la struttura). È prima di ogni altra cosa una “casa”, in cui l’ospite può sentirsi al centro, accolto, ascoltato. Non ci sono limiti di tempo, non ci sono orari né obblighi per parenti e cari. Viene posta grande attenzione all’ascolto, al dialogo, alla soddisfazione dei desideri della persona.

Rispetto alla necessità di una norma sul fine vita, Annamaria Marzi ha detto che in Italia si avverte un vuoto normativo e che la legge oggi in discussione è una buona legge, frutto di un’alta mediazione che sancisce dei principi importanti basati sulla reciproca fiducia tra paziente e medico. E nel consenso informato si incontrano l’autonomia decisionale del primo e la competenza e responsabilità del secondo.

Paolo Vacondio ha spiegato come non si può affrontare il fine vita con gli stessi strumenti con i quali la “medicina per acuti” approccia la patologia; se si immagina metaforicamente la morte come un muro da abbattere, questo approccio, infatti, fa sì che ci si scagli contro questo muro con tutti gli strumenti a nostra disposizione, con il solo scopo di buttarlo giù. Ma l’ariete che si utilizza è la testa del nostro paziente, e più sferriamo colpi a questo muro, più egli soffre, patisce ulteriori pene senza trarre alcun giovamento. Fare “palliazione” significa cambiare prospettiva, significa accettare quel muro, significa sedervisi vicino, insieme al nostro paziente, e rendere la morte più accettabile. Perché la morte fa parte della vita, è una tappa inevitabile. Entrare nelle case delle persone vuol dire entrare in contatto con la parte più intima del paziente, avere il privilegio di poter stare nel suo ambiente e viverlo con lui.

Il folto pubblico ha posto domande, particolarmente sulla definizione di accanimento terapeutico con i suoi controversi confini, cui i relatori hanno risposto citando casi concreti che fanno riflettere. A fine serata tutti hanno capito che quando si trattano tematiche così importanti e misteriose come queste, ascoltare chi le vive tutti i giorni, a stretto contatto con la malattia e la morte, può fornire una chiave di lettura per meglio capirne i contorni e per meglio disporsi all’incontro vero con le persone.

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