Ebbe per casa il mondo intero

Pier Vittorio e quegli ingordi anni ottanta

Trent’anni fa morì Pier Vittorio Tondelli. Il Comune di Correggio, che da anni organizza le “Giornate Tondelli” con il Centro di documentazione a lui dedicato, ed il Comune di Reggio hanno già promosso un intenso programma di eventi per ricordarlo, che si svolgerà nel prossimo mese di dicembre. Primo Piano lo fa qui, grazie al contributo di due scrittori, il reggiano Massimo Zamboni e il correggese Marco Truzzi

Massimo Zamboni, scrittore, chitarrista e compositore è stato co-fondatore dei CCCP – Fedeli alla Linea, gruppo musicale punk rock (1982-1990) tra i più influenti nell’Italia degli anni ottanta. Ha scritto una ventina di libri. L’ultimo è “La trionferà” edito Einaudi (2021). Pier Vittorio Tondelli fece conoscere i CCCP al mondo della cultura, con l’intervista che fece loro su l’Espresso nel 1984. Da lì nacque tra loro un’amicizia duratura.

È un mondo fisico quello che con i suoi racconti ci ha lasciato in eredità Tondelli. Fisicamente si praticano i corpi dei suoi protagonisti, si toccano, si uniscono, si violano, si urtano, si accarezzano, si ammalano. Una parola come l’attuale distanziamento sarebbe risuonata come una bestemmia in quegli anni tumultuosi subito dopo il 1980, dove si bruciavano i chilometri, si consumavano le strade, si respiravano tabacco, fumo e polveri, si stava da ubiqui avendo per casa il mondo intero: Ibiza come nuova riviera, Carpi come periferia di Berlino. Un salto ad Amsterdam per lo shopping, uno a Londra per i vestiti, a Parigi per sospirare, a New York per imparare. Tangeri infine, Big Sur, Rimini, Firenze, Goa, infilati in una girandola vorticosa. E ci si fa male, nel mondo di Pier Vittorio i corpi si fanno male, nessuno schermo di portatile o di cellulare fa da protezione alle scosse della vita: mani spingono siringhe dentro le braccia, lamette strappano la pelle, in automobilistiche notti sconsiderate ci si spaccano le ossa. La cifra del periodo è l’imprudenza, agli antipodi del risparmio delle generazioni precedenti, della parsimonia di genitori nati contadini e inurbati senza saperlo, vissuti con il mito del diploma e del lavoro garantito. Lontani perfino dalle insurrezioni del decennio appena trascorso, orfani di ideologie decadute, in un livello di azzardo così ricercato da sconfinare nell’arroganza. Un’ingordigia di vita che contiene in sé l’obiettivo dichiarato di propugnare la propria immortalità. A tutto questo è stata appiccicata l’etichetta di postmodernismo: una superficie levigata fatta di triangoli scaleni, di spigoli, di linee spezzate, di altoparlanti che rimbombano. Nulla che non sia stato detto già, ma mai era accaduto di sperimentarlo a queste latitudini e mai sotto un’ala protettiva come quella allungata da un già barcollante PCI, partito-mamma dato per eterno; e mai sotto l’incubo di una malattia nuova, l’immunodeficienza acquisita, che nessuno si aspettava e che avrebbe spazzato via tutti gli imprevidenti, lasciando gli altri sbigottiti e tristi. Le cronache raccontano quegli anni come quelli dell’ascesa di Craxi, poi di Berlusconi. Ma sbagliavano: pochi tra noi si sono potuti accorgere fino in fondo di quei nomi, presi integralmente come eravamo dal nostro vivere che tutto il resto escludeva. Una generazione che spavaldamente porta su di sé la colpa di aver lasciato fare, senza sentirla come colpa, ma come liberazione. Pochi hanno retto il passo. Si è salvato – ma mai fisicamente – chi ha saputo conservare in sé lo sguardo lungo, il sintomo dell’infanzia, il lampo della meraviglia, un’innocenza selvaggia, connaturata, e assieme a loro l’odore della terra, il coraggio del passato. Così è accaduto a Tondelli. Così a Pazienza. Così anche a CCCP, sento dire.

La tomba posta nel cimitero di Canolo, accanto alla sepoltura dei genitori che imbottigliavano lambrusco con la luna buona sotto lo sguardo intenerito di quel figlio inchiodato dalla nostalgia, porta la data del 16 dicembre 1991. Meno di dieci giorno dopo il neo presidente dell’URSS, Boris Eltsin, darà l’ordine di ammainare la bandiera sovietica dal Cremlino, sostituendola con il tricolore russo. Il mondo così come l’abbiamo conosciuto è arrivato al capolinea, l’impero è imploso, il socialismo deflagrato in una miriade di rivendicazioni. Assieme a loro, voilà, si scioglie l’Emilia del ‘900, portando con sé, tra mille detriti, il mondo mai piccolo di Tondelli.

Massimo Zamboni

“Proprio come se il tempo fosse quel che volevano,
quando ancora era dato in dono e in possesso,
proprio come se avessero torto
a non desiderare più d’appartenere”.

Wystan Hugh Auden, Un altro tempo

Noi siamo quelli che siamo venuti dopo. Siamo quelli che pure c’erano, in quell’autunno del 1991 e poi nel freddo dell’inverno che ne è seguito, ma che siamo venuti dopo, per un’infinità di motivi. Per l’età. Perché non avevamo capito. Perché non c’eravamo. Perché non conoscevamo molto di quella vita. Desideravamo appartenere ad un tempo che, invece, non era il nostro e del quale, successivamente, abbiamo cercato di ripercorrere le strade, come nuovi Pollicini, alla spasmodica caccia di una traccia, di un segno, di un’amicizia, di una parola, tra le tante tracce, tra i molti segni, tra le innumerevoli amicizie, tra le mille parole che Pier Vittorio Tondelli aveva disseminato, qua e là.

Prima lo abbiamo amato, Tondelli, lo abbiamo amato nel reflusso che pure abbiamo vissuto, in quella risacca sociale e culturale di cui noi stessi abbiamo fatto parte. Lo abbiamo amato perché ogni suo attacco era rock e ogni suo svolgimento era libertà di gridare – esatto, “gridare” – che il mondo non si racchiude tra i portici di corso Mazzini e duecento metri di corso Cavour.

Dopo, invece, lo abbiamo messo da parte, persi nella complessità digitale – che lui, comunque, aveva letterariamente anticipato – come se anche lui fosse un solido boomer, uno di quelli che, nonostante tutto, nonostante tutto il dolore e il magone di vivere, aveva comunque potuto contare su una realtà nella quale potevi anche farcela, sì. Poteva anche succedere. E per noi, che siamo venuti dopo, invece no.

Infine, lo abbiamo anche un po’ detestato, Tondelli, ma più che altro per colpa dei “tondelliani”, che ne hanno definito il “canone”, una sorta di ortodossia dello stile, e un po’ per colpa anche di quelli che invece c’erano prima, prima di noi, che l’hanno conosciuto e amato, che ci hanno parlato e che si sono confrontati direttamente con lui, e che nel tempo son diventati quelli che “eh ma Tondelli, eh ma gli anni Ottanta, eh ma i Police a Reggio…”.

Noi, quelli che siamo venuti dopo, eterogenei libertini in modo differente dagli “altri”, non abbiamo aneddoti personali che ci possano supportare quando raccontiamo di come per noi “Camere separate” sia stato un romanzo che ci ha cambiato la vita, molto di più e molto più a lungo degli “Altri”. È come se Tondelli, l’idea di Tondelli, si fosse cristallizzata da qualche parte, immobile e immutevole in una materia inerme, quando invece la sua scrittura era carne, passione, sentimento, emozione, solitudine, quando tra le sue righe prendevano vita il Postoristoro, certo, ma anche i colombi del nonno Dembrao.

Noi che quaggiù, nell’acciottolato del Corso, siamo venuti dopo, e che da qui però non ce ne siamo mai andati a differenza di tanti altri che ora da Roma, Bologna, Milano scrivono e raccontano di come si vive da queste parti, abbiamo amato così tanto Tondelli – di un amore incondizionato e non soggetto al decadimento del tempo – da finire per desiderare di non appartenergli più, custodi testardi della fenomenologia dell’abbandono. E di tutto ciò che invece ne resta.

Così, a volte portiamo fiori davanti all’edicola, a fianco della casa che fu. Non per le pareti, non per il tempo, non per il possesso e nemmeno per il desiderio. Ma per le parole, le parole, ah, sì. Ed è tutto ciò che abbiamo ancora, quel che rimarrà di tutta questa storia.

Avremmo voluto conoscerti, Pier. L’abbiamo fatto attraverso le parole.

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