Anche la cucina più raffinata e il servizio perfetto non possono dare il sapore, i profumi, l’atmosfera del mangiare a casa. Le nostre rezdore scrivevano con bella calligrafia, su quadernetti un poco unti, le ricette tramandate di madre in figlia. Ogni famiglia aveva le sue tradizioni, con varie alternative dettate dal buon senso o dalla praticità; ma alcune ricette, gli ingredienti, la sfoglia rimanevano punti fermi.
La tavola è sicuramente l’espressione di una cultura, di una civiltà e per noi, di là dai vetri, c’era e c’è la campagna, il canale, la nebbia o la neve e i pigri filari di pioppi. Le nostre tradizioni sono davvero tante: l’erbazzone, la saba, al savurètt, al gnooc frétt, la pulèinta cun la saràca, solo per elencarne le più conosciute.
Ma d’obbligo a Natale e nelle feste importanti erano, e spesso ancora sono, i cappelletti. Conosciuti e preparati in Emilia, Romagna, nel ferrarese e nelle Marche; in particolare nel reggiano di dimensioni spesso maggiori rispetto ai tortellini cugini modenesi, la forma ricorda un piccolo cappello (dell’ombellico di Venere diremo più in là).
Qualche riferimento a questa pasta ripiena si trova a partire dal XIII secolo; in quel tempo anche il nostro formaggio grana era già ritenuto “il migliore di tutti i casci” e, insieme al burro, il condimento sovrano. Ma è col ‘500 e con la nascente cucina delle corti signorili (gli Estensi, i Gonzaga) che si raccolgono le varie ricette dei cappelletti e diventano il piatto di Natale e delle feste importanti, soprattutto nel periodo invernale, da consumarsi in brodo bollente di cappone.
Ma ora, che sono in compagnia di Laura Radeghieri, di professione medico dentista, sposata a Correggio con Lauro Guerra, con due figli maschi, cinque nipoti e un pastore tedesco, so che i cappelletti per lei non hanno segreti.
Laura, da cosa deriva questo tua passione per i cappelletti?
«Per me la cucina in generale è un atto d’amore per la famiglia. In particolare i cappelletti riuniscono tutti intorno alla tavola, ma è bello anche confezionarli; è un rito, ci sono profumi di una volta, il pesto come faceva la mamma e ancor prima, la nonna».
La ricetta è dunque quella di famiglia?
«Certo, poi ogni famiglia ha qualche variazione sul tema; io ti racconto la nostra. Per il pesto si parte col manzo, un po’ di petto e i magoni del pollo, che, essendo un po’ duri, daranno consistenza al pesto e li senti sotto i denti. Si fanno cuocere con burro e cipolla un paio d’ore e si ottiene lo stracotto, che rilascia il suo sugo. Togli la carne e la triti finemente, poi la rimetti nel sugo. Aggiungi il pane grattugiato per dare la consistenza giusta, la noce moscata e i chiodi di garofano».
E il nostro re dei formaggi, vogliamo aggiungerlo?
«Devi aspettare un po’ che si raffreddi il tutto, altrimenti il formaggio “al ciapa al scapèin”, ovvero prende l’odore di un calzino maleodorante».
Per la sfoglia consideri un etto di farina ogni uovo?
«No, per me diventerebbe troppo dura da impastare a mano; metto meno farina altrimenti “la s’infruléss” e si fatica a fare i cappelletti. Da noi, come diceva mio padre, in un cucchiaio ci devono stare quattro cappelletti. Era una bestemmia parlare di cappelletti alla panna, solo brodo di cappone, che è l’esaltatore dei sapori. Per un buon brodo si aggiungeva al cappone un po’ di manzo, le ossa, le verdure, gli odori e si colava».
Quando si mangiavano?
« Nelle feste comandate: Natale, Primo dell’anno, Primo Maggio e la sagra».
L’attenzione per le tradizioni è ancora presente. Le rezdore mantengono viva la preparazione di alcuni primi piatti, secondi e dolci e magari i mariti si dedicano a marmellate e aceto balsamico. Ringrazio e saluto Laura e Lauro, senza dimenticare due carezze al cane.
Ma poiché Modena non è lontana (e qualche “incauto” correggese ha sposato una donna di origini modenesi) non è difficile nemmeno incontrare Maurizia Monari, moglie del nostro redattore Claudio Corradi, per avere una ricetta dei tortellini che laggiù si confezionano, non prima di avervi narrata la storia della nascita della loro forma.
Agli inizi del ‘900 un certo Giuseppe Ceri, riprendendo una storia boccaccesca di Alessandro Tassoni, racconta che dopo una notte d’amore a Castelfranco Emilia tra Venere, Bacco e Marte, partiti questi ultimi verso Modena, l’oste inavvertitamente entra in camera e resta colpito dall’ombelico di Venere che definisce “divino e singolare”. Ritornato in cucina, vuole imitarlo e inventa il tortellino.
Ma veniamo alla ricetta di Maurizia: «Per fare più di un chilogrammo di ripieno (al pést) si utilizza carne di manzo, maiale, vitello e salsiccia in parti uguali di 250 grammi. Si aggiungono anche una fetta spessa di prosciutto crudo e una fetta spessa di mortadella. La carne deve essere ben macinata, amalgamata in modo omogeneo e cotta lentamente. Va lasciata raffreddare per aggiungere poi 700 grammi di Parmigiano Reggiano stagionato 30 mesi, 100 grammi abbondanti di pan grattato, noce moscata e sale solo se serve. Con le mani si lavora l’impasto per ottenere la massima omogeneità.
La sfoglia (la fujeda) necessaria per questo quantitativo di pést da caplètt si fa con 13 uova, 1,3 kg di farina, metà “00” e metà “calibrata”. Quando si fanno, i tortellini vanno riposti ordinatamente su di un vassoio di cartone ricoperto con un canovaccio, per lascarli poi asciugare a temperatura ambiente. Con le dosi descritte, una volta asciutti, i tortellini peseranno circa 2,5 kg. E potranno anche essere messi in un sacchetto e conservati in freezer. Se per mancanza di pesto restano un po’ di rombetti di sfoglia, si stringono nel mezzo (strichett) e si mangiano cotti e serviti asciutti, oppure in brodo».
Dunque auguri di buon Natale a tutti: godiamoci i piatti della tradizione.