Il famigerato “delitto d’onore” scompare dal Codice penale italiano nel 1981. Bisogna però aspettare il 2013 affinché il Parlamento italiano, ratificando la Convenzione di Istanbul (2011), si impegni a riconoscere la specificità e la gravità dei femminicidi, nonché ad adottare tutte le misure necessarie per perseguire gli autori dei reati, proteggere le vittime e prevenire ogni forma di violenza di genere. È solo in questi ultimi anni che si è d’altronde preso coscienza del fatto che le violenze contro le donne rappresentano un problema strutturale della nostra società, e che non si tratta più solo di adottare provvedimenti repressivi, ma anche e soprattutto misure in grado di prevenire ogni forma di discriminazione, lavorando affinché l’uguaglianza tra gli uomini e le donne possa diventare effettiva.
Fine delle violenze contro le donne, quindi? In realtà no. Anzi. Nonostante negli ultimi dieci anni gli omicidi volontari siano sensibilmente diminuiti in Italia, il numero di vittime femminili resta stabile. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’ISTAT, nel 2018, sarebbero morte 133 donne, di cui più dell’80% uccise da una persona conosciuta: partner, ex-partner, familiare o amico. C’è chi, per cultura o per tradizione, non ce la fa ancora a sopportare l’idea che le donne possano essere autonome, e possano quindi costruirsi una vita indipendentemente dalle aspettative maschili. C’è persino chi, riferendosi a un femminicidio, continua a parlare di “raptus”, di “amore malato” o di “tempesta emotiva”, non riuscendo a togliersi dalla testa la convinzione secondo cui le passioni non si potrebbero controllare, la gelosia sarebbe una prova d’amore, e la violenza la conseguenza inevitabile dell’abbandono. Come se la donna continuasse a contare meno dell’uomo, ad avere meno valore, talvolta a non essere altro che un “oggetto di possesso”.
Dietro i femminicidi c’è quasi sempre l’atteggiamento freddo e manipolatore di uomini che, incapaci di fare i conti con le proprie fratture disumanizzano le donne ancora prima di massacrarle. Spesso destabilizzati dalla nuova autonomia femminile, alcuni maschi non sanno più come affermare la propria virilità. Poco sicuri di sé, e incapaci di capire quale possa essere il proprio ruolo, altri accusano le donne di mettere in discussione la propria superiorità: narcisisticamente fratturati, pretendono che siano le proprie compagne a aiutarli a riparare le proprie ferite. Un problema identitario, quindi, che si trasforma poi in un problema relazionale e che, ancora troppo spesso, sfocia nell’odio e nella violenza di genere. Come spiegare altrimenti la furia omicida di tanti uomini?
Ormai sappiamo che l’aggressività e il desiderio di possesso fanno parte della natura umana. Ma abbiamo anche capito che la violenza, se non la si può cancellare, la si può almeno contenere e prevenire. Avendo il coraggio di fare a pezzi i pregiudizi, gli errori, i compromessi, le scuse e le banalità di cui, ancora oggi, sono impastati i rapporti tra gli uomini e le donne. Distinguendo l’amore – che regala ad ognuno di noi la libertà di essere noi stessi – dalla gelosia possessiva che obbliga l’altra persona ad occupare esattamente quel posto lì, quello che le abbiamo preparato, quello che non può disertare, nemmeno quando ha deciso di andarsene via. E aiutando i più piccoli a costruire quelle che Freud chiamò le “dighe psichiche” – il pudore, il disgusto e la compassione – che permettono di organizzare il vivere insieme e la coabitazione di tutti e tutte. È solo imparando a convivere con la frustrazione e la mancanza che si potrà poi insegnare ai maschi che le donne non sono né “oggetti” a disposizione per colmare il proprio vuoto né “cose” di cui ci possa impossessare. È solo decostruendo e ricostruendo la grammatica delle relazioni affettive, che si potranno combattere e prevenire le violenze di genere.