Diego Gianolio, da Correggio a Boston, chimica poi oncologia

Uno studio sulla Leucemia Mieloide Acuta, per nuove terapie

Raggiungo telefonicamente il dottor Diego Gianolio a Boston dove vive e lavora. Approfitto della sua non breve stagione di vita passata a Correggio, dove vivono sua madre e i suoi fratelli, e della sua disponibilità, per rivolgergli alcune domande sulla sua attività di studio e ricerca in campo clinico.

 

Diego, nel tuo ultimo studio clinico quale tipo di leucemia tratti?

«La leucemia può essere considerata un cancro del sangue ed è dovuta a una combinazione di fattori genetici e ambientali che possono portare a mutazioni nelle cellule presenti nel midollo osseo. La leucemia mieloide acuta (LMA) è un tipo di leucemia. Si manifesta a tutte le età, maggiormente tra gli anziani (età media sessantanove anni). La LMA richiede un trattamento immediato e aggressivo, nella maggior parte dei casi la chemioterapia. Non tutti i pazienti però possono tollerarla, come ad esempio gli anziani sopra i settantacinque anni e chi ha altre comorbidità che compromettono altre funzionalità come quella renale, cardiaca ed epatica».

 

Che risultati hai osservato?

«Lo studio clinico è stato condotto a livello globale. La metà dei pazienti dello studio è stata trattata con la combinazione di ivosidenib e azacitidina come braccio di trattamento, l’altra metà con solo azacitidina come braccio di controllo. L’azacitidina è una terapia non intensiva, disponibile nella maggior parte del mondo, che fino a poco tempo costituiva l’unica opzione. Ivosidenib non è un agente chemioterapico, ma una molecola che prende di mira la mutazione genetica. I risultati di questo studio hanno mostrato una sopravvivenza globale mediana di ventiquattro mesi per i pazienti trattati con la combinazione di ivosidenib e azacitidina, rispetto ai 7,9 mesi per quelli trattati con la sola azacitidina. Pertanto, la sopravvivenza globale mediana è stata triplicata! Questo risultato è meraviglioso soprattutto considerando l’aggressività di questa malattia».

 

Come sono stati identificati i pazienti per lo studio?

«Lo studio ha interessato centocinquantacinque ospedali distribuiti in venti Paesi del mondo. Per arruolare i pazienti abbiamo dovuto capire il funzionamento dell’assistenza in ciascuna regione, ossia come vengono identificati gli effetti della malattia e come vengono indirizzati ai vari centri. In Francia, ad esempio, ci sono organizzazioni molto grandi che formano una rete tra la maggior parte degli ospedali e consentono una rapida identificazione dei pazienti. In Germania, invece, c’è un maggiore utilizzo di cliniche private più piccole, quindi è stato necessario informare i medici di queste cliniche con opuscoli e materiali vari».

 

In che senso si parla di “qualità della vita del paziente”?

«Nel nostro studio abbiamo analizzato la qualità della vita di ciascun paziente, fornendo loro un questionario da completare ad ogni visita prima di ricevere i trattamenti. L’abbiamo indagata in termini di funzionamento fisico, cognitivo e sociale. Sono stati analizzati fattori quali stanchezza, nausea, dolore, perdita di appetito e molti altri fattori importanti nella vita quotidiana. I pazienti del nostro studio hanno riportato una migliore qualità della vita quando trattati con ivosidenib e azacitidina rispetto alla sola azacitidina. Questo è un risultato fondamentale perché spesso i pazienti affrontano un momento difficile soprattutto durante l’inizio dei loro trattamenti, in attesa che i farmaci facciano effetto. Nel nostro studio invece si mostra che i pazienti hanno avuto un proficuo esito clinico, associato ad un miglioramento immediato della loro qualità di vita».

 

Come è vista dai colleghi stranieri la ricerca italiana?

«A volte trovo resistenza da parte dei colleghi quando suggerisco di includere i centri di ricerca italiani. Le loro preoccupazioni si basano principalmente sul fatto che è necessario un tempo significativamente più lungo per ottenere l’attivazione di un sito di ricerca italiano. Le pratiche burocratiche necessarie, le interazioni con i comitati etici e tutte le altre fasi coinvolte risultano in notevole ritardo rispetto ad altri paesi europei. Tuttavia, quando i centri di ricerca italiani sono inclusi negli studi clinici globali, generano dati di alta qualità».

 

Il Covid ha avuto conseguenze sul vostro studio?

«Il COVID-19 ha avuto un impatto limitato sulla nostra sperimentazione clinica, siccome siamo stati in grado di mitigare la maggior parte dei problemi. Abbiamo raccolto tutte le informazioni relative al COVID-19 nel nostro database e abbiamo analizzato con molta attenzione come potrebbe aver influenzato lo studio. Alcuni pazienti sono stati infettati, ma si sono ripresi. Sfortunatamente, un paziente in Russia che stava andando molto bene e aveva la leucemia in completa remissione per più di un anno è morto a causa del virus. Un evento particolarmente triste, ma per fortuna è stato unico».

 

Perché hai scelto la scienza e in particolare l’oncologia?

«La scienza mi ha da sempre interessato. Avere la possibilità di imparare qualcosa di nuovo ogni giorno e di fare progressi in campo medico mi stimola. Nel tempo mi sono avvicinato al campo dell’oncologia. È molto impegnativo, ma mi permette di usare tutte le mie energie per far sentire meglio le persone, o perlomeno permettere loro di vivere una vita migliore. Se c’è qualcosa che posso fare per rendere le cose un po’ più facili a chi ne ha bisogno, perché non dovrei farlo? Amo il mio lavoro proprio per questo».

 

 

 

Diego Gianolio, classe 1970, nasce a S. Felipe (Venezuela) e si trasferisce a Correggio all’età di sei anni. Laureato in Chimica all’Università degli Studi di Parma, completa gli studi post dottorato facendo ricerca scientifica biochimica negli Stati Uniti. Cittadino italo-americano, attualmente vive a Boston. È direttore di ricerca a livello clinico nel campo dell’oncologia per la Servier Farmaceutici, una grande società con sede a Boston che fa capo a una Fondazione indipendente francese per la ricerca in campo medico. Le informazioni qui contenute le ha pubblicate presso il New England Journal Of Medicine.

Condividi:

Leggi anche

Newsletter

Torna in alto