Denatalità

«s. f. [dal fr. dénatalité]. – In statistica demografica, diminuzione delle nascite; tendenza della natalità a diminuire nel tempo, con conseguente progressiva riduzione dell’eccedenza delle nascite sulle morti, o addirittura con eccedenza di queste ultime» (Vocabolario Treccani)
«Se dall’Ottocento in poi le generazioni di studiosi si sono preoccupate perché nel mondo ci sarebbero state troppe persone, per noi oggi il problema sta forse diventando che ce ne saranno troppo poche» (Wall Street Journal).
Con la precisazione che «la denatalità colpisce i paesi che producono e consumano benessere. Mentre i paesi poveri col progresso sanitario sono diventati ancor di più “bombe demografiche”, come dimostrano le nuove migrazioni che attraversano il mondo» (ONU).
Da tempo i sociologi legano la perdita di dinamismo e di coesione delle comunità alla denatalità e all’invecchiamento della popolazione. Oggi ci sono diversi economisti che individuano nella denatalità dei paesi sviluppati una causa importante della difficoltà dei mercati mondiali, dopo la grande crisi finanziaria, a recuperare in termini di sviluppo: meno figli significa meno investimenti sul futuro. Ma ci sono anche studiosi che invitano a non drammatizzare, sottolineando che se consideriamo il trend della natalità non su pochi anni ma sugli ultimi cento la decrescita in Italia è in attenuazione, tanto da far pensare che si possa raggiungere una nuova stabilità. Se guardiamo poi all’occupazione la denatalità sarebbe addirittura un fatto positivo, dato che il progresso tecnologico e l’automazione “bruciano” sempre più posti di lavoro, e comunque può essere contrastata con l’inserimento produttivo degli immigrati.
Ci avviamo comunque ad abitare non più solo in una casa, come c’era a Correggio, ma in un intero mondo “d’ov ceer” (uova infeconde)?
È dal 2011 che le cicogne passano più raramente nel cielo sopra Correggio. Il fenomeno è in sintonia con l’andamento nazionale, dopo il grande boom degli anni 50 e 60 e la successiva decrescita. L’ultimo picco di un trend positivo delle nascite, iniziato intorno al 1995 grazie all’arrivo di famiglie immigrate notoriamente più prolifiche, si è avuto nel 2010. In quell’anno videro la luce 316 piccoli correggesi, 160 maschi e 156 femmine. L’anno successivo inizia il rallentamento, 270; nel 2012 si risale a 294, ma la discesa riprende per arrivare ai 223 nuovi nati del 2016 su una popolazione complessiva di 25.696 abitanti. Dunque a Correggio il fenomeno delle culle vuote comincia a farsi sentire, anche perché sembra che i cittadini immigrati si adeguino pian piano ai nostri standard.
Così, se nell’anno scolastico 2009/2010 gli iscritti agli asili nido comunali erano 260, per il 2016/2017 sono 190. Contemporaneamente, ancora in sintonia con i dati nazionali, i numeri ci ricordano che la nostra popolazione sta invecchiando. Anche se l’età media dei correggesi è leggermente inferiore a quella degli italiani (43,6 anni contro 44,9) i nostri ultra 65enni sono 5528 (2400 maschi e 3128 femmine), il 21% della popolazione totale (contro il 22,3% del dato nazionale). I correggesi ultranovantenni sono 341 (86 maschi e 255 femmine), l’1,3% del totale (1,2% il dato nazionale). Mentre coloro che ce l’hanno fatta a spegnere cento candeline sono 19 (4 maschi e 15 femmine). Dunque più anziani e sempre meno bambini nel nostro immediato futuro, perché i ragazzi correggesi, come i loro coetanei italiani, da diversi anni scelgono di fare pochi figli e di metterli alla luce intorno ai 30 anni, quando si sentono più sicuri da punto di vista affettivo e/o occupazionale. Nel frattempo anche il contributo demografico costituito dal flusso di immigrati stranieri, si è esaurito.
E il risultato è quello che stiamo vivendo: una “società invecchiata” in cui le politiche di welfare sono costrette ad aumentare l’impegno verso chi ha i capelli bianchi e a ristrutturare i servizi verso l’infanzia. Primo esempio concreto: dal prossimo anno scolastico due sezioni del nido “Melograno” di Mandriolo saranno accorpate al Gramsci.
La ragazza che mi chiede di controllare se la sua sezione di gambo di asparago è buona ha gli occhiali e la coda bassa, mentre mi avvicina leggermente il microscopio. Questo gruppo di 40 studenti al secondo anno di Biologia ha già dimostrato durante gli altri laboratori di essere composto di ragazzi educati, attenti, globalmente preparati, e soprattutto piacevolmente interessati.
Mi allontano dagli oculari e mi accorgo che la ragazza e la sua compagna di banco mi stanno guardando le mani:
«Prof, lei è sposata?»
Ahhh…. Capito. Anello giusto, mano sbagliata.
«No».
Adesso abbiamo l’attenzione di tutto il gruppo. Più o meno conosco il copione: è difficile per questi ragazzi incasellarmi nella categoria “docenti”, forse perché per l’età potrei essere figlia della gran parte di tutti gli altri docenti del loro corso di laurea. Da fuori ciò che appare di me è qualcuno che cammina lungo un percorso di carriera per seguire il quale avrà (forse) dimostrato qualche merito, sfidato qualche compromesso e sicuramente affrontato qualche sacrificio. E il primo sacrificio a cui si pensa è la difficoltà nel creare una propria famiglia; anzi no, di fare figli.
Quello che ormai sappiamo perfettamente, ma che da fuori spesso non si vede, è che ben a monte del concetto di carriera abbiamo perso l’idea di sicurezza.
Siamo cresciuti specchiandoci nel sorriso soddisfatto dei nostri genitori che ci dicevano quanto fossimo fortunati ad essere nati nel nostro Tempo, che grazie alle loro ribellioni era un Tempo di benessere, di opportunità e di crescita.
Non è ben chiaro cosa sia successo. Ci deve essere sfuggito un passaggio – che io personalmente colloco temporalmente tra la fine dell’adolescenza e la primavera della giovane età adulta – e probabilmente è sfuggito qualcosa anche a loro, perché il Tempo, di cui avremmo dovuto raccogliere a piene mani i frutti, si è rivelato una bizzarra chimera dalla testa di leone ma dalle zampe di gambero.
Da un po’ siamo venuti a patti col fatto che molto difficilmente potremo trovare il tipo di vita e di benessere dei nostri genitori, salvo ovviamente eccezioni: le libertà conquistate dai padri hanno emesso fattura.
C’è chi di noi decide che tra i sacrifici che questo Tempo ci propone non è disposto ad includere quello di rinunciare alla gioia della maternità/paternità, e allora sacrifica il resto. In tanti di noi invece esitano, frenati dal peso di variabili economiche e sociali. Non credi che la relazione affettiva possa durare per l’eternità; oppure hai la certezza che, ovunque sia, il tuo non sarà mai un lavoro stabile; o sai anche che non puoi avere lì vicino i genitori ad aiutarti; o pensi di non avere uno Stato a proteggerti; o temi di capitare con un medico che ti nasconde i problemi del nascituro…
Forse non può esistere una sola battaglia da vincere per ottenere il diritto alla felicità, anche quella naturale dei figli. Forse ciò a cui i nostri genitori non pensavano è che ogni generazione si trova a dover combattere per quel diritto le sue battaglie.
Siamo in equilibrio precario, e per avanzare sul filo si può solo fare quello che si può con quello che si ha, avendo talvolta il coraggio di procedere un po’ più sbilanciati.
Va tutto bene. In qualsiasi modo sia, è il Nostro Tempo.
Cercheremo comunque di farne meraviglie.
Le 474mila nascite avvenute in Italia nel 2016 sono meno della metà di quelle avvenute mezzo secolo prima, ed un minimo storico assoluto negli ultimi due secoli. L’assottigliarsi delle schiere di bambini, dei giovani e dei giovani adulti è alla radice della crisi dello stato sociale, altera i rapporti tra generazioni, pone ostacoli alla crescita della produttività e ad un equilibrato sviluppo. Il sostegno alla natalità – oggi scesa a poco più di 1,3 figli per donna – e alla riproduzione è oramai una priorità. Va però tenuto conto del fatto che un aumento della natalità – che per sua natura può solo essere graduale – ha ricadute di natura economica molto dilazionate. Un nuovo nato “in più” si traduce in un “giovane in più” o in un “lavoratore in più” a distanza di 20 o 25 anni. Ma più tardi si interviene, più la spirale negativa si avvolge, e più lontana rimane ogni stabile soluzione. Teniamo poi conto della rigidità dei bilanci pubblici: i trasferimenti per famiglie e figli, come ben si sa, sono assai minori in Italia rispetto all’Europa centro-settentrionale, ma è dubbio che si possano reperire cospicue risorse pubbliche a meno di profondi tagli al settore sanitario e a quello pensionistico. Il bonus bebé – l’assegno di 80 euro mensili spettanti per tre anni alle famiglie con un neonato – è stato esteso ai nati per tutto il 2017, ma è condizionato al fatto che il reddito familiare sia inferiore ad una determinata soglia, e nessuno può oggi assicurare che verrà rinnovato in futuro, Nel 2017 è stato anche introdotto il “premio alla nascita” di 800 euro per i nati nell’anno, ma vale l’osservazione precedente circa la sua ripetibilità in futuro. Buoni ma parziali segnali, non inseriti in una politica organica e senza garanzia di continuità.
La ripresa delle nascite non dipende solo (né in prevalenza) dagli incentivi monetari, ma anche (e soprattutto) da altri mutamenti strutturali. In primo luogo da un aumento sensibile delle donne con una occupazione, perché queste, col loro reddito, danno maggior sicurezza al bilancio familiare e alla donna stessa in caso di scissione del nucleo familiare. Oramai, nelle regioni più sviluppate, sono i paesi con maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro quelli con maggiore natalità. C’è un’approfondita conoscenza delle politiche di appoggio all’occupazione femminile, tra le quali scegliere le più appropriate al caso italiano (incentivi alle imprese che assumono donne, alleggerimento fiscale per le donne che lavorano, politiche varie di conciliazione famiglia-lavoro e altre ancora). Ma tutto questo non funzionerà se la società non rimuoverà quelle asimmetrie che impongono alle donne gli oneri più gravosi per la cura dei figli, la gestione della casa, la solidarietà familiare. Oneri che sono in competizione per il tempo e le energie della donna col lavoro nel mercato e, appunto, la generazione dei figli. Qui più che le politiche – che hanno un ruolo minore – è la cultura che deve tessere la sua trama (scuola, attività di formazione, esperienze all’estero) ristabilendo l’equilibrio sbilanciato a sfavore delle donne. Infine, occorre operare per riavvolgere l’orologio del ciclo di vita dei giovani che ha ritardato enormemente l’età al conseguimento dell’autonomia e delle scelte di vita fondamentali: lavoro, indipendenza dalla famiglia di origine, unione, matrimonio, nascita di un figlio. La mancanza di autonomia deprime la natalità in due generazioni: in quella dei genitori, che mettono in conto una lunga dipendenza della prole e quindi ne limitano la numerosità; in quella dei figli, che diventando autonomi tardi, hanno meno spazio (anche biologico, per le donne) per dar corso alle proprie scelte (si desiderano due o tre figli, ma se ne mettono al mondo uno o due). Lavoro (della donna), simmetria (tra generi), autonomia (dei giovani): tre obbiettivi inscindibili, ciascuno buono in se stesso, che se perseguiti congiuntamente e con vigore, sono migliori di qualsiasi politica pro-natalista.

Massimo Livi Bacci
Professore di Demografia all’Università di Firenze, socio dell’Accademia dei Lincei, autore di diverse pubblicazioni (l’ultima è “Il pianeta stretto”, ed. Il Mulino); è stato ospite di Primo Piano in una apprezzata conferenza. Appositamente per gli amici di Primo Piano ha scritto questo breve contributo sul tema della “denatalità”

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