Che Bowie stesse trafficando con la morte lo si poteva capire da un bel po’ di tempo.
L’assenza dai palchi, le notizie che circolavano sul suo stato di salute ma soprattutto gli ultimi due dischi della sua carriera: The Next Day e il nuovo Blackstar. Album premonitori, intrisi di una sensibilità noir. In particolare Blackstar, l’ultimo capolavoro della carriera del Duca Bianco (uno dei tanti pseudonimi e “impersonificazioni” dell’artista britannico) uscito il giorno del suo compleanno e appena qualche ora prima della sua scomparsa (sulla data precisa della scomparsa di Bowie ci sono voci contrastanti ma pare che il decesso sia stato annunciato dalla famiglia un paio di giorni dopo).
Ora questa uscita teatrale, sì perché di teatro si tratta, è l’ultima scena di un’opera di costruzione di un percorso mirabile, l’ultima parte della costruzione di una leggenda. Una figura che va oltre il discorso musicale, coinvolgendo aspetti sociali se non sociologici. Un trasformismo che ribalta estetiche e convenzioni.
Dal fenomeno Glam, alla messa in discussione dei ruoli sociali e delle categorie sessuali, per giungere all’introduzione nel mondo machista del rock, della ambiguità e della androginia.
Un sovvertimento di identità capace di mettere in discussione gli usi e costumi di un’epoca.
Bowie gioca con la sua identità, sfida, sperimenta: uomo, donna, ermafrodita, alieno?
Probabilmente tutto questo insieme, con l’invenzione di veri e propri personaggi in bilico tra reale ed immaginario che vengono impersonati nei dischi, nei live, nei film: da Ziggy Stardust all’uomo che cadde sulla terra, dal Duca Bianco al Commissario Nadler.
Trasformazioni e invenzioni vorticose che fanno incontrare oltre alla musica, correnti e avanguardie artistiche, letteratura, teatro, danza, filosofie.
In fondo questo è stato uno dei massimi meriti del percorso di questo eccentrico musicista: fare entrare nel rock, nei pochi minuti di una canzone pop, elementi altri, trasposti da altri ambiti.
Portare elementi obliqui e sperimentali e riuscire a renderli assimilabili ad un vasto pubblico.
Cosa non facile, anzi assolutamente ardua, quella di rendere popolare l’avanguardia.
Bowie ci è riuscito e in questa operazione affinata nel tempo ha fatto scuola, ha ispirato e nello stesso tempo ha assorbito lui stesso nuovi stimoli, nuove sollecitazioni: un vero e proprio artista onnivoro, spinto da una curiosità insanabile.
È grazie a Bowie che in un veicolo «popolare», nella griglia popular della canzone rock, di comunicazione universale, sono entrati elementi dissonanti, di ricerca, trasposti dalle correnti d‘avanguardia.
L’Art-rock, sua invenzione e sua inquietudine.
Uomini che cadono sulla terra, scenari fantascientifici, curiosità intellettuale, la pop-art di Warhol, progenie di affamati che trovano nella musica una via di esplorazione.
Bowie ho imparato ad amarlo in tutto il suo percorso, in quel vertiginoso rollercoaster che è la sua vicenda artistica, con alti e bassi, con dischi contrastanti, ma che nascondevano in ogni caso tesori.
Un ultimo tesoro è dunque anche Blackstar, album con cui Bowie lancia ultimi interrogativi sulla vita e sull’essenza di un artista di fronte alla morte, domande che si estendono all’eternità delle proprie opere artistiche. Blackstar, album contrassegnato da una stella nera carica di significati esoterici, è uno dei grandi album di Bowie, tra inquietudini gotiche, toni di jazz noir, richiami a grandi cantori.
Alla fine un album di grandi canzoni che incarna l’ultima sfida di un artista che tutto ha sfidato: la sfida alla morte, rappresentata iconograficamente dall’ultimo video “Lazarus”, le ultime immagini impietose, tra diversi piani di realtà, che ci mostrano oscenamente le spoglie di un uomo (?) che ha da sempre fatto del suo corpo una stessa opera d’arte.
È questione di estetiche, di sensibilità, di mondi paralleli. Bowie mi entra, tocca le mie corde, altri no.
Ashes to Ashes, David!