Dal primo luglio scorso Fausto Nicolini non è più Direttore Generale dell’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia. Al compimento del 62esimo anno di età si è dimesso dall’incarico, ultima tappa di una importante carriera di dirigente della sanità pubblica. Fausto Nicolini è un correggese che ha dato lustro alla nostra città, impegnandosi con successo in un settore fondamentale per la realtà locale. Lo ringraziamo per averci concesso la prima intervista dopo la decisione di lasciare la Direzione Generale.
Nonostante il pensionamento da medico pediatra, Lei avrebbe potuto continuare a dirigere l’AUSL-IRCCS di Reggio Emilia sino al 2022, quando sarebbe scaduto il suo mandato. Perché ha deciso di presentare le dimissioni?
«Perché ho capito che il mio tempo in quel ruolo era terminato ed era ora di passare le consegne a qualcun altro con più energia e motivazioni di quante ne potessi aver conservato dopo 10 anni da direttore generale e 37 anni di servizio, in diversi ruoli, in questa Azienda. I miei dieci anni di mandato ininterrotto sono stati intensi e impegnativi: dalla crisi del finanziamento del SSN iniziato nel 2010, il terremoto del 2012, la fusione delle due aziende dal 2017 in poi, il COVID ultimamente. E poi la vicenda di Bibbiano, che mi ha molto ferito umanamente ma anche dal punto di vista professionale. Ho ricevuto diverse offerte per la Direzione di Aziende in questa Regione ed in altre Regioni ma non me la sono sentita di impegnarmi ulteriormente: mi è sembrato il momento giusto per passare il testimone e dedicarmi ad altro».
Tra marzo e giugno Lei ha gestito, nella nostra provincia, la più grande emergenza sanitaria dalla Seconda Guerra Mondiale. Il sistema sanitario pubblico reggiano ha dimostrato nel complesso la propria efficienza, ma all’inizio anche da noi la gestione della Pandemia da Sars-CoV-2 non è stata semplice. Se avessimo avuto anche qui il numero di contagi che si sono avuti a Bergamo o Brescia l’impatto sarebbe stato altrettanto devastante?
«Non ho tutti gli strumenti conoscitivi per fare paragoni, ma penso che aver visto in anticipo gli effetti dell’epidemia in Lombardia e nei territori di Piacenza e Parma ci abbia consentito di muoverci con una maggiore tempestività e consapevolezza. Di certo senza le misure di contenimento e le ordinanze nazionali e regionali il sistema ospedaliero e la sanità sarebbe stata travolta».
Quali sono stati i passaggi più critici nella gestione dell’emergenza?
«Il dover decidere in tempi strettissimi (parliamo più di ore che di giorni) riorganizzazioni complesse dei servizi e delle degenze, sconvolgendo assetti consolidati per adattarci in modo tempestivo ad uno scenario che mutava rapidamente. Il fabbisogno sempre maggiore di posti letto di terapia intensiva, la dotazione di ventilatori e di tecnologie, la necessità di dedicare intere sezioni/ospedali di degenza ai pazienti COVID in continuo aumento, l’approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale per proteggere gli operatori e il coordinamento “just in time” di tutte queste programmazioni di emergenza sono stati i fattori più impegnativi e determinanti. Per questo fin da febbraio avevamo istituito una Unità di Crisi aziendale (composta da più di 20 dirigenti), operativa 24 ore su 24, che ci ha garantito un monitoraggio costante della situazione e una grande tempestività di azione. Il tutto concertato con la Regione, la Conferenza Socio Sanitaria Territoriale, il Comitato per la Sicurezza presieduto dal Prefetto e i Sindaci della Provincia».
Cos’ha funzionato e cosa non ha funzionato nella struttura e nell’organizzazione che Lei ha avuto a disposizione in quelle drammatiche settimane?
«Nessuno di noi aveva mai affrontato una pandemia, che come è stato detto può essere paragonata solo a quella della Spagnola del 1920. Il virus era totalmente sconosciuto agli esperti e il suo comportamento imprevedibile (tuttora non possiamo certamente dire di conoscerlo appieno). Tutti siamo stati colti impreparati e inesperti a tutti i livelli: abbiamo visto opinioni diverse tra virologi, microbiologi, infettivologi, epidemiologi, intensivisti sulle misure da adottare. Con il senno di poi e con le conoscenze maturate forse qualcosa oggi cambieremmo. L’aspetto positivo che ho più volte richiamato è stato l’impegno e la dedizione di tutto il nostro personale sanitario, tecnico e amministrativo che, ciascuno per la propria parte, ha “buttato il cuore oltre l’ostacolo” e ha dimostrato di essere una comunità professionale coesa, competente ma soprattutto ricca di valori e principi etici e deontologici, dimostrando una passione e un impegno veramente encomiabili. Per questo l’opinione pubblica e i cittadini, oltre alla politica e alle istituzioni, hanno riscoperto il valore e il ruolo imprescindibile della sanità pubblica a tutela della salute di tutti».
Lei teme un riacutizzarsi di questa Pandemia?
«Il timore c’è, ma come ho detto prima nessuno ha certezze rispetto all’andamento futuro di questa pandemia. Dipenderà molto anche dagli strumenti che potremmo mettere in campo a livello di prevenzione (es. vaccino) e cura (es. anticorpi monoclonali, farmaci antivirali). Dovremo però continuare a fare affidamento sulla responsabilità individuale dei cittadini per il rispetto delle misure igieniche e comportamentali che ci hanno consentito di ridimensionare l’entità dei contagi. Penso che dovremo conviverci per qualche anno in un contesto che spero sia più gestibile e meno drammatico di quanto abbiamo vissuto nei mesi scorsi».
La sua esperienza di medico e di dirigente è iniziata a Correggio. Cosa le ha insegnato quel periodo?
«Il periodo da pediatra svolto in un servizio (pediatria di comunità, punto nascita) di fatto strutturato e dedicato al benessere della comunità e non al singolo bambino mi ha fornito una visione e una impronta di sanità pubblica che poi si è evoluta nella scelta di assumere incarichi dirigenziali di tipo organizzativo e gestionale, più che clinici. É stata una bella palestra assieme ai primi anni da medico in cui, stante il blocco all’epoca delle assunzioni, ho svolto diversi incarichi (oggi si direbbe da precario) che mi hanno consentito di acquisire una rilevante conoscenza dei servizi territoriali ed ospedalieri. Conoscenza che mi è servita tantissimo quando sono stato chiamato alla direzione di distretto di Correggio nel 1996 dal Dr. Riboldi e successivamente alla Direzione del Presidio ospedaliero provinciale nel 2001 dalla Dr.ssa Martini».
Nel tempo le politiche sanitarie della nostra Regione hanno dovuto affrontare il problema dei costi delle strutture nei centri minori del territorio. Come giudica le scelte compiute sul territorio correggese?
«Direi che la programmazione a lungo termine dei servizi sanitari nel distretto di Correggio, iniziata sotto la direzione di Riboldi con la riqualificazione dell’ospedale in struttura a vocazione riabilitativa di 1° e 2° livello a fine anni ’90, si sia dimostrata lungimirante e appropriata, consentendo al S. Sebastiano di trovare un ruolo importante e stabile nella rete ospedaliera provinciale. Una riconversione che oggi riguarda altri ospedali di pari dimensioni della Regione a fronte di una crescente complessità clinico-assistenziale, che comporta una sempre maggiore specializzazione e uno sviluppo tecnologico incessante e oneroso. Che evidentemente non può essere garantito diffusamente. Il modello degli ospedali della riforma Mariotti del 1968 è definitivamente tramontato. Averlo capito venti anni fa è stato un vantaggio per la sanità correggese».
Nella rete regionale delle strutture sanitarie pubbliche, a suo parere quale posizione occupa oggi la nostra provincia?
«L’Azienda di Reggio viene vista a livello nazionale e regionale come una delle più innovative in assoluto nell’ambito delle strutture pubbliche. Negli ultimi tre anni il rapporto OASI della Bocconi ha inserito Reggio tra le realtà all’avanguardia su diversi aspetti gestionali e organizzativi. Nell’ambito della performance, negli ultimi 5 anni la valutazione regionale (che si fonda su oltre 100 indicatori di qualità e appropriatezza dei servizi territoriali e ospedalieri) ha classificato Reggio sempre al primo posto, tranne che un anno dove eravamo secondi dietro al Rizzoli di Bologna. La fusione operata nel nostro territorio sta diventando un modello anche in altre regioni e viene studiata dai maggiori “think tank” a livello nazionale. Poi forse non tutti saranno d’accordo, ci sono sempre i nostalgici del passato o i critici che vorrebbero ancora di più: su questo aspetto devo dire che i reggiani sono molto affezionati alla sanità pubblica e per questo molto esigenti. Questo è sempre stato uno stimolo positivo a fare meglio, perché come dice un aforisma: “Una cosa fatta bene si può sempre fare meglio”. La nostra azienda ha adottato lo slogan di Sir John Muir Gray dell’Università di Oxford (con il quale abbiamo e stiamo collaborando) che dice: “Fare al meglio le cose giuste”. Questa è la sfida del futuro che coniuga appropriatezza, efficienza e sostenibilità del sistema».
Il “MIRE”, Ospedale Maternità e Infanzia, è un progetto che prevede finanziamenti per oltre 42 milioni di euro. Si tratta di un progetto strategico? L’esperienza della Pandemia non ci dice di investire più risorse sui servizi territoriali piuttosto che su grandi strutture specialistiche?
«Il MIRE è un progetto nato come idea nel 2007, quando la pandemia certo non era all’orizzonte. Una struttura concepita inizialmente per riqualificare i servizi materno-infantili dell’Azienda ospedaliera Santa Maria Nuova in grande sofferenza logistica, strutturale ed impiantistica. Strada facendo è diventato un “concept” per lo sviluppo di una maggiore qualità, ricerca e innovazione in ambito clinico- assistenziale ed è diventato un riferimento per altri territori, che stanno sviluppando progetti analoghi. Le risorse in sanità non sono mai abbastanza ed è indubbio che anche i servizi territoriali necessitino di un maggiore sviluppo. Anche se non tutti sanno che a fronte della spesa complessiva pro-capite per la sanità i costi della degenza ospedaliera sono una quota inferiore al 40%, mentre il rimanente 60% si distribuisce nei servizi territoriali (farmaceutica, cure primarie, assistenza domiciliare, salute mentale, neuropsichiatria infantile, dipendenze patologiche, strutture per anziani, igiene pubblica, medicina del lavoro, veterinaria, servizi socio-sanitari, ecc…). Ho più volte affermato pubblicamente che un settore che richiede un maggiore investimento di risorse assieme ad una riorganizzazione complessiva sono le cure primarie, perché a fronte di un progressivo invecchiamento della popolazione l’epidemiologia ci pone oggi il problema della cronicità, della comorbilità, della non autosufficienza, della disabilità e della fragilità. Il COVID ci ripropone questi problemi ma da un punto di vista differente, rendendo ancora più cogente e necessaria una stretta integrazione tra servizi territoriali ed ospedalieri. Detto questo per il MIRE si tratta di investimenti patrimoniali (conto capitale) dedicati alle strutture e non alla gestione dei servizi. La spesa corrente infatti (conto esercizio) è finanziata in quota capitaria attraverso il riparto del Fondo Sanitario Regionale e Nazionale. Finanziamenti in conto capitale che se non fossero venuti a Reggio non si sarebbero trasformati in maggiori risorse per i servizi territoriali ma sarebbero andati in altri territori a finanziare altre strutture. Non bisogna poi trascurare gli investimenti che la Regione sta facendo sulle Case della Salute: a Reggio a breve ne sono previste 3 nuove già finanziate e per le quali sono stati avviati gli iter di progettazione e appalto dei lavori».
La nostra Regione ha espresso politiche sanitarie complessivamente positive. Ci sono secondo Lei aree di intervento in cui occorre migliorare?
«Tutto è migliorabile e penso che questo possa e debba essere fatto in ogni settore. Dopo di che solo chi come me è stato paziente molti anni fa (nel 1973) può rendersi conto compiutamente di come sia cambiata e migliorata la sanità di oggi ed in particolare nella nostra Regione, che viene sempre citata come modello. Da vicepresidente nazionale di FIASO lo posso dire, senza alcuna remora, che in questi anni molti colleghi di aziende di altre regioni sono venuti a conoscere ed apprendere le nostre modalità e strumenti gestionali».
Lei è ancora relativamente giovane, la sua grande esperienza di dirigente della sanità pubblica non dovrebbe essere sprecata: ha qualche progetto?
«Vedremo, per ora farò un po’ di ferie. In questi anni, nei ritagli di tempo, ho effettuato alcune docenze in Corsi di Formazione e Master in Università come Modena e Reggio, Milano, Bologna, Roma, Siena. Ecco, quello della docenza è un impegno che mi piacerebbe mantenere. Penso di aver dato tanto ma anche di aver ricevuto tanto dalla sanità pubblica: vorrei restituire qualcosa della mia esperienza a chi avrà voglia e pazienza di ascoltarmi e confrontarsi».