Correggese, classe 1985, ha cominciato a girare il mondo da quando aveva vent’anni, avendo come base l’Università di Bologna. Il suo curriculum è fittissimo, quasi indecifrabile per un profano: fondamentalmente è un archeologo esperto nelle civiltà mesopotamiche, specializzato in economia.
Giacomo Benati ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Torino, Dipartimento di Studi Storici. Il dottorato di ricerca italiano, equivalente al titolo di PhD, Doctor of Philosophy, è nella maggior parte delle nazioni il più alto titolo accademico riconosciuto. Ha svolto ricerche presso il British Museum, scritto numerosi saggi e articoli, segnalati e premiati. Nel 2016 ha vinto un premio internazionale per il miglior articolo scritto dopo il dottorato nell’ambito della ricerca sulle civiltà del Vicino Oriente antico.
Durante le festività di fine anno ho avuto l’opportunità di intervistarlo e ho ritrovato il ragazzino che conoscevo, semplice e disponibile, nonostante la sfilza di titoli e pubblicazioni, quello che giocava in cortile e che mamma Francesca chiamava dall’alto della finestra.
Nel febbraio dello scorso anno, porta a termine insieme all’economista Carmine Guerriero una ricerca dal titolo “Cambiamento climatico e costruzione dello stato nei paesi più agricoli del mondo”. Suscita immediatamente molto interesse, non solo negli ambienti accademici: questo suo ultimo lavoro di ricerca risulta in straordinaria sintonia con la sensibilità attuale, che collega in modo imprescindibile le crisi dovute al cambiamento climatico con la costruzione del futuro. Gli chiedo se questo rapporto sia frutto del caso. «Certo che no. É il risultato di un percorso cominciato già anni fa», mi risponde.
Racconta di essersi reso conto, a un certo punto, che ci sono mondi accademici che non si parlano tra loro, che spesso gli storici rinunciano a spiegare il perché degli avvenimenti a causa dell’alto numero di fattori che entrano in campo, come se fosse troppo complicato e quindi, alla fine, inspiegabile.
Dopo la laurea triennale, la specialistica e il dottorato, ha avvertito che rimanere archeologo e storico di un periodo e un ambito precisi era una situazione statica, che non poteva dare risposte alle “grandi domande”, al perché delle disuguaglianze economiche, alle conseguenze delle crisi climatiche, alla disparità di genere: in un mondo sempre più volatile, le sfide dell’attualità devono essere affrontate in modo trasversale, cioè facendo dialogare discipline che solitamente non si parlano.
Molto più banalmente, la ricerca viene finanziata se può dare delle risposte; ne risulta che la ricerca di base, che spesso si avvita su se stessa, è penalizzata. Quindi ha pensato di mettere in comunicazione tra loro le scienze umanistiche e quelle esatte, passando per quelle sociali. Si è perciò occupato di economia e ha trovato, prima a Bologna e poi all’Università di Tubinga, gruppi che lavorano in questa direzione.
Parlando delle crisi climatiche del passato, la ricerca storica e archeologica ha sempre messo in evidenza gli eventi negativi; la cattiva gestione delle risorse, anche in passato, ha portato a dei disastri ambientali (l’esempio più macroscopico è l’Isola di Pasqua, o il collasso della civiltà dei Maya).
Le correlazioni tra cambiamento climatico e cambiamenti sociali non possono essere dimostrate in maniera credibile dalle metodologie delle discipline umanistiche; bisogna andare a ricercare cause e fattori con dati “raffinati” e dimostrabili. L’enormità dei dati amministrativi degli stati mesopotamici, che sono lì, scritti su tavolette d’argilla, sono stati un egregio materiale per applicare alla storia i metodi delle scienze economiche.
La domanda è stata: “Il cambiamento climatico ha sempre portato catastrofi?”. Abbiamo potuto rispondere con precisione scientifica, raffinando i dati e sincronizzando il cambiamento climatico coi cambiamenti socio-politici e rispondere che “non è stato sempre così”: nell’età del bronzo – terzo e secondo millennio a.C -, le crisi climatiche portarono in quegli stati, già strutturati e basati su una forte componente agricola, una rivoluzione istituzionale, consistita in un allargamento dei diritti della popolazione, che fu strumentale per creare più cooperazione tra diverse classi sociali e organizzare investimenti produttivi comuni.
Ciò su cui si arenano gli storici è la constatazione dei disastri nel breve termine, ciò che intendiamo fare noi è andare a vedere cosa è successo dopo, nel medio e lungo periodo, con dati precisi e verificabili alla mano.
Allora mi interrogo: questo valeva nel terzo millennio a.C, ma può essere di ispirazione anche per la ricostruzione post Covid-19? Se non erro, puntano in questa direzione “ecologica” molti progetti che verranno finanziati dall’Unione Europea, quindi anche dal nostro piano nazionale di ripresa e resilienza. Con un sorriso gentile, continua dicendo che hanno fatto un salto cronologico, mettendo sullo stesso piano gli stati in via di sviluppo che si trovano attualmente in condizioni non troppo dissimili dalle società agrarie del passato (ce ne sono diversi in Asia e Africa). Facendo questo “test”, e prendendo in esame gli anni dal 1960 al 2010, si può provare che le crisi climatiche hanno preceduto ondate di “democratizzazione”: dopo le crisi, l’allargamento della partecipazione politica – il passaggio da regimi autocratici a sistemi di democrazia rappresentativa – è stato coadiuvato da uno spostamento degli investimenti della spesa pubblica dagli armamenti alla sanità e all’educazione, interventi che hanno poi portato un effetto economico benefico nel breve termine. Anche il decentramento amministrativo e l’allargamento della partecipazione politica a livello locale, se si ritiene che siano cambiamenti positivi, sono risposte alle crisi ambientali.
Quindi, per assurdo, ben vengano le crisi? No, e non è compito né degli storici né degli economisti “prevenire” le crisi ambientali. Altri scienziati dovranno farsi venire delle idee e darsi da fare, ma facendo sposare la ricerca economica con le discipline storiche e ambientali si possono trarre, dallo straordinario campionario di esperienze umane che è la storia, alcune lezioni che possono informare i protocolli di risposta alla crisi climatica, uno sforzo a cui finora storici e archeologi hanno partecipato solo in minima parte.
Quanto ai progetti e ai “finanziamenti”, vista la tendenza e gli stimoli che vengono dall’UE (che ha cambiato la valutazione sulla qualità delle ricerche) tutto l’ambiente universitario sta cambiando: insomma, i dipartimenti che hanno svolto le ricerche più innovative e più interdisciplinari hanno più finanziamenti. Misurarsi con le grandi domande paga.