Da settembre Correggio ha un co-parroco

Don Gionatan Giordani, qui tra noi, dopo Guastalla e Reggio

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n nuovo parroco è giunto in città: dal 23 Settembre 2022 don Gionatan Giordani ha affiancato don Alberto Debbi nella guida dell’Unità Pastorale comprendente le parrocchie di San Quirino, Nostra Signora di Fatima, San Biagio, San Donnino (Fazzano), San Prospero e San Pietro.

Classe 1983, don Gionatan arriva a Correggio dopo i precedenti incarichi pastorali, prima nella Caritas diocesana a Guastalla, sua città Natale, poi, negli ultimi tre anni, a Reggio Emilia nella parrocchia di Sant’Agostino oltre che come assistente diocesano dei Giovanissimi di Azione Cattolica. Don Gionatan è co-parroco: voci di corridoio dicono che don Alberto abbia chiesto di essere affiancato da lui nella strada poco battuta del co-parrocato, data l’amicizia che li lega da tanti anni.

Don Gionatan, che impressione ti ha fatto Correggio in questi primi mesi? Hai notato qualcosa di diverso rispetto al centro di Reggio, in cui hai passato gli ultimi anni?

«Devo dire che quella di Correggio è una zona che non conoscevo, ma l’accoglienza è stata bella! Mi sembra che sia una città molto attiva, ricca di gente che si rimbocca le maniche, e mi pare che ci sia anche una buona relazionalità: mi è già capitato di essere fermato sotto i portici per un saluto da persone che si vogliono presentare, cosa che a Reggio non mi capitava. Anche le parrocchie che seguo mi sembrano piuttosto vive: a Reggio è più frequente trovare una comunità “forte” ed altre un po’ più “satelliti”, qui resiste una bella vivacità!».

Nei tuoi incarichi hai sempre avuto un occhio di riguardo per i giovani: ci fai un loro ritratto, anche in merito agli effetti che il Covid ha avuto, secondo le tue riflessioni?

«Provare a capire come abbiano davvero vissuto il periodo più intenso della pandemia mi ha fatto percepire come la distanza tra giovani ed adulti sia in qualche modo aumentata a causa del Covid. È come se ci fosse una difficoltà comunicativa (reciproca), in cui non ci si riesce a comprendere l’un l’altro. Penso però che questa complessità possa essere più un’opportunità di ascolto che non un problema di definizione dei giovani. Dalla ripresa post Covid ho notato che hanno voglia di stare insieme, di recuperare le relazioni più belle. Mentre negli anni scorsi quando si organizzava qualcosa bisognava “tirare” perché partecipassero attivamente, mi sembra che negli ultimi mesi fra i ragazzi ci sia più di tutto la voglia di ritrovarsi, anche senza grandi strutture organizzative».

Quando ci si riferisce ai giovani, spesso si sente dire che sono disinteressati e hanno la testa solo per i social: è vero? Penso per esempio al mondo del volontariato, in cui i giovani spesso scarseggiano.

«Non penso che i giovani d’oggi siano disinteressati, penso piuttosto che vivano in un modo diverso dal nostro l’espressione del servizio, del volontariato: si è allargata la complessità delle esperienze che possono vivere. Sono ragazzi che vivono e crescono in un mondo estremamente stratificato e anche il modo di vivere lo è inevitabilmente. Questo anche nel contesto religioso, ovviamente.

Ma – anche qui – penso che non dovremmo concentrarci sul “perché non montano su?”, ma sul “quanto crediamo in quello che diciamo?”. I giovani sono sempre giovani: hanno dentro del potenziale, un desiderio di futuro che possiamo aiutare a far uscire, ma per fare questo e per coinvolgerli penso che innanzitutto ci si debba concentrare sulla qualità del messaggio che si vuole portare e provare a scoprire il loro linguaggio, non quello che vorremmo che fosse il loro linguaggio. Questo passa, secondo me, da un’esperienza di ascolto».

I giovani non sono gli unici a faticare, anche dal punto di vista spirituale: con il Covid le persone fanno fatica a tornare alla pratica religiosa. Questo mi sembra che sia colto con un po’ di dispiacere anche da chi non frequenta. Cosa ne pensi?

«Nonostante tutti i limiti, gli sbagli e le difficoltà che si vivono all’interno della realtà ecclesiale, la fede e la Chiesa rimangono una cosa buona che incide (o può incidere) positivamente sulla comunità, non solo religiosa ma anche civile. Ad esempio, quando alcune chiese sono rimaste chiuse per il terremoto non è dispiaciuto solo ai cattolici, perché l’esperienza cristiana è ancora parte integrante della nostra cultura e delle nostre vite. Penso che il buono stato e la vivacità della vita spirituale sia un segno di progresso, di spessore umano, della comunità civile stessa e quindi sia da curare con attenzione».

Davanti a tutte le difficoltà che il nostro tempo esprime e con la tanta disillusione che si respira, la Chiesa ha ancora qualcosa di sensato da dire?

«Penso che l’importante non sia tanto quello che la Chiesa dice ma quello che la Chiesa è: una realtà che si prende cura del senso della vita, della speranza. Se non lo fa, bisogna chiederglielo! Per esempio, come Chiesa non parliamo più tanto di resurrezione, ma forse il motivo è che non riusciamo a parlare di morte. Ecco, bisogna diventare persone che si interrogano e che hanno familiarità con domande importanti, più che cose da fare o obiettivi da raggiungere».

Senti, ma perchè co-parroco e non parroco? Non è un incarico molto comune…

«È una possibilità che esiste ma che è poco sperimentata. Penso che si inserisca in un approccio diverso che la Chiesa anche locale, su indicazione di Papa Francesco, sta provando ad avere: darsi come priorità quella di fare le cose insieme, ascoltandosi reciprocamente, prima ancora che dover fare qualcosa. Se avete sentito parlare del Sinodo, l’idea è questa: scoprire e gustare la bellezza di camminare insieme!».

Allora benvenuto a Correggio, caro don Gionatan!

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