Claudio Maioli ci accoglie, nella sua casa di Correggio, alle 11,30 di un venerdì d’agosto «perché quello – ci dice scherzando – è l’orario in cui si svegliano i veri rocker!».
È appena rientrato dalle vacanze, per anticipare i lavori per il prossimo Campovolo e in tempo per prendere l’aereo che lo porterà, insieme al “cantante”, alla notte della Taranta di Melpignano.
Claudio non ha perso l’entusiasmo e la passione dei primi tempi, come ci dirà più volte.
Anzi, con la sua etichetta, Riserva Rossa Records, alterna il lavoro di manager e produttore esecutivo di Ligabue a quello di talent scout di giovani artisti, fra cui Paolo Simoni: «È difficile, si ispira a Dalla. Però scrive, a me interessa gente che scriva».
Oggi il Maio è forse il numero uno dei manager italiani.
È stato l’artefice di eventi, come Campovolo 2005, 2011 e 2012 (Italia Loves Emilia), che, per risonanza e numeri, non hanno eguali nella storia musicale italiana, senza considerare tutto il lavoro “all’ombra”, dietro il palco, che ha consentito a Luciano di esprimere a pieno il proprio talento, protetto dalle spalle robuste dell’amico di una vita.
Trent’anni con Luciano Ligabue: una lunga e grande storia rock nata a Correggio. Quali sono i segreti di questo successo?
«I meriti sono di Luciano: senza le sue canzoni, non sarebbe successo niente.
Per il resto, è stata sempre la passione a guidarci e, all’inizio, la volontà di provarci.
La vita in provincia ci aiuta a dare il giusto peso alle cose.
Ci aiuta tornare a casa, dopo un concerto, e vedere i vecchi amici, percepire che se uno ti chiede “come stai?”
è perché gli interessa. E sai anche che ti può mandare a cagare, perché ti conosceva prima del successo».
Questa genuinità, che traspare anche nelle canzoni di Luciano, può essere una ragione del vostro successo?
«È una delle ricette che ci hanno sempre contraddistinto, perché abbiamo iniziato a fare questo mestiere dopo molte esperienze lavorative e sapevamo com’è la vita. Luciano racconta la vita e alle persone piace trovare qualcuno che si denuda per te, che dice qualcosa che tu pensi, ma non sempre hai il coraggio di affrontare».
Quali sono i ricordi più belli che conservi della tua attività con Luciano?
«La nostra è stata e continua a essere una bella storia, partita da una radio di Fazzano, e arrivata – con la fortuna necessaria e soprattutto la bravura di Luciano – molto più in là di quello che pensavamo. Una storia che è stata raccontata bene anche nel film “Niente paura”, di Piergiorgio Gay, uscito nel 2010, oltre che in “Radiofreccia”, almeno per quanto riguarda gli inizi».
Spesso tendi a sminuire il tuo ruolo, però sappiamo che sai essere un “martello pneumatico”, quando serve…
«Grazie per il “martello pneumatico”, si dice anche “trita-maroni”… Se credi in un progetto, con passione, è normale mettercela tutta per realizzarlo.
Per me la felicità è inseguire un sogno e, eventualmente, realizzarlo, come ai tempi della radio. Se, poi, quel sogno si realizza, ti dà nuova linfa per continuare.
Molti pensano che questo mestiere lo si faccia per i soldi. Forse è vero agli inizi, ma dopo cerchi altro e lo fai soprattutto per le soddisfazioni e le gratificazioni che ne ricavi».
Oggi, dopo i tanti traguardi raggiunti, riuscite ancora a trovare nuovi stimoli?
«Anche in questo caso il merito va riconosciuto a Luciano, alla sua voglia e alla sua capacità di comunicare, dopo 130 canzoni incise, di cui 75 singoli di successo.
La carriera di Luciano non si è mai svolta in maniera monotona: ci siamo inventati i club, i teatri, i concerti in acustico, San Siro, Campovolo, le cinque date di “Sotto bombardamento”, il Giro del Mondo…
E lui si è sempre messo in gioco. Il segreto sta nell’aprirsi a nuove sfide.
Il rischio, invece, è di cadere nella routine».
Tu e Luciano avete spesso sostenuto importanti cause umanitarie: per Emergency con il “Mio nome è mai più”, per Libera di don Ciotti, per le popolazioni colpite dal terremoto con Italia Loves Emilia.
Con la musica, insomma, si può ancora proporre o sostenere una “bella politica”?
«La musica è un bellissimo collante, che le associazioni umanitarie utilizzano perché arriva in maniera leggera e credibile a toccare i problemi più importanti.
Ho avuto la fortuna, facendo questo mestiere, di incontrare persone bellissime, fra cui Gino Strada, con cui è nata un’amicizia.
Emergency, nel 1998, era una giovane associazione.
Mi informai sulle loro spese amministrative e vidi che solo il 6,75% veniva usato per pagare strutture o uffici, il resto andava a destinazione. Per questo decidemmo di aiutarla».
“Buon compleanno, Elvis”, di cui quest’anno festeggerete il ventennale, è stato l’album della svolta e ha anche coinciso con un nuovo inizio nella vostra collaborazione. È un caso?
«È un album straordinario, che rappresenta un salto di qualità, anche artistica. Finito il disco, ho ricominciato a occuparmi di Luciano come manager.
Lui pensava che un sodalizio fra amici potesse avere un valore aggiunto e io ho sentito la grande responsabilità di ripagare questa fiducia.
Un manager deve avere la passione, ma anche la lucidità del caso.
Il primo San Siro, nel ’97, glielo proposi perché sentivo che era il momento, che poteva riempirlo».
Qual è stato, in tutti questi anni, il tuo maggiore sforzo organizzativo?
«Italia Loves Emilia è stata una sfida enorme. Uno dei problemi era farlo a settembre, a distanza di alcuni mesi dal terremoto e, soprattutto, con le vacanze di mezzo. Mi ritrovai, a fine agosto, con 700 mila euro di sponsorizzazioni in meno. Nonostante questo, riuscimmo a donare alla Regione ben 4,3 milioni di euro, l’intero incasso del concerto, al netto Siae. I cantanti, che ovviamente suonarono gratis, dimostrarono molta umiltà e un grande spirito di collaborazione. Fin dal primo giorno misi le cose in chiaro: “Ragazzi, – dissi- siamo qui per una causa comune. Quindi, non rompete i maroni!”. Mettendola così, in modo friendly, tutti capirono e non ci furono più problemi».
Se oggi, improvvisamente, potessi ritornare indietro, ci sono scelte che faresti in modo diverso?
«Sono felice di quello che ho fatto.
Anche se ho commesso degli errori, continuerei a inseguire quel sogno.
Volevo un mestiere che mi piacesse e sono riuscito a inventarmelo.
Mio padre mi disse: “Provaci!”, anche se non capiva fino in fondo cosa significasse fare il manager di un cantante.
Il mio sogno, ora, è di essere pagato non in denaro, ma in gratificazioni, tempo libero, altri sogni da inseguire».
È un sogno anche Arena Campovolo, uno spazio attrezzato per grandi concerti, che avete proposto al Comune di Reggio Emilia. Credi che si farà?
«È un sogno che diventerebbe una ricchezza per tutti i reggiani.
Non solo per l’indotto economico, ma per i ragazzi, che lì, dietro casa, vedrebbero i concerti che potrebbero cambiare le loro vite.
Grazie al nome di Luciano, oggi, ci sarebbe la possibilità di farlo.
E sarebbe bello poter usare la nostra popolarità per fare qualcosa di buono per la comunità».
La conversazione è durata a lungo.
Si è parlato molto di politica, di valori che la musica deve incarnare, e del messaggio di speranza, sempre presente nelle canzoni di Luciano, a dispetto dell’immaginario comune, che vorrebbe i rocker dannati e disperati.
E di Giro del mondo, il tour che si è appena concluso: «Un giro fra noi, come una volta, con il tempo, fra un concerto e l’altro, di concederci qualche giorno di vacanza, alla faccia delle spese!».
On the road, sulla via del rock’n’roll, inseguendo il sogno di sempre.
Poi Claudio ci saluta.
Sale in auto e col direttore generale di Campovolo e dopo la vacanza sarda, va a concedersi un bel piatto di cappelletti.
Che sia lì, anche, il segreto?
Luigi Levrini e Guido Pelliciardi