In questo momento ho l’inferno in tasca.
Sono alla scrivania e sento il peso dello smartphone nella tasca laterale.
Tu dove l’hai lasciato l’inferno? Nella borsetta? Nello zaino? Sul comodino?
I tre demoni guardiani di questo girone sono la Nomofobia, l’Internet Addiction Disorder” (IAD) e la sindrome di Hikikomori.
Essi trasformano il piacere della comunicazione in bisogno: invece di stare bene quando sono connesso, sto male quando non lo sono.
Il piacere si riesce a gestire, il bisogno no.
I demoni del girone del dispiacere.
Un girone che abbiamo tutti a portata di mano.
Perché abbiamo un cellulare?
È chiaro, perché essere in relazione è uno dei più alti piaceri della vita, ma chi è dipendente sente il bisogno di essere in relazione anche quando essa non dà piacere o non è un desiderio.
Ed ecco che, come dice Mario Asti, riabilitatore psichiatrico e leader dei Piunz (gruppo musicale di Reggio Emilia ndr), la “comunicazione” si afferma “com’unic’azione” della vita. Diventa una dipendenza. Abbiamo incontrato tre esperti, per chiedere come fare a riconoscere e affrontare la più nuova delle dipendenze, quella che negli ultimi anni ha avuto la maggior velocità di sviluppo.
Ivan Mario Cipressi, coordinatore del Ceis, mi parla della sindrome di Hikikomori, che colpisce il 20% degli adolescenti maschi giapponesi e che «porta a chiudersi in camera per molte ore, con il corredo tecnologico che li tiene in contatto con il mondo in modo virtuale». Da soli, contro il mondo, dipendenti dalla solitudine.
L’isolamento è il primo sintomo.
Di altri sintomi me ne parla Lorenzo Notari, sociologo presso InternetQuantoBasta (IQB), un servizio che suggerisce strade per consulenza legale, tecnica e psicologica riguardo alle problematiche online quali ricatti, adescamenti e bullismi. Ecco alcuni sintomi del web-malessere:
– Postare e non ricevere abbastanza “like”. (Nella vita reale corrisponde a quando nessuno ride per una battuta che hai fatto). Ecco, se una cosa del genere annebbia tutta la giornata, allora è un sintomo.
– Mettere “like” compulsivamente. (Nella vita reale corrisponde a dire “ciao” a tutti quelli che si incontrano per strada). Un altro sintomo.
– Fermarsi durante una riunione di lavoro per prendere appunti per il prossimo post. (Nella vita reale corrisponde a fermarsi durante una riunione di lavoro per pren- ok, avete capito). Anche questo è un sintomo: i tempi della vita reale vengono dopo le scadenze virtuali.
Infatti, mi conferma Antonio Lanzoni, direttore dei programmi del Ceis di Reggio Emilia, i sintomi della dipendenza da tecnologia (nomofobia) sono di tre tipi: occupazionale, relazionale e affettivo.
Quando la qualità della nostra occupazione (lavoro o studio) o delle nostre relazioni subisce un peggioramento a causa dell’abuso dello smartphone, allora c’è un problema.
A proposito delle altre dipendenze. Oltre ad essere una dipendenza in sé, il web è anche un amplificatore di altre dipendenze da comportamento (gioco d’azzardo, pornodipendenza, ossessione da videogiochi). Una dipendenza ripiena di dipendenze: un inferno ripieno di inferni.
E, da bravo inferno, di questo non si sa (ancora) quasi nulla. I dati sono scarsi. Al contrario delle dipendenze da sostanze (alcol o stupefacenti), le dipendenze da comportamento sono difficili da studiare. Un quadro complessivo italiano sulla dipendenza da connessione non esiste. Bisogna fare affidamento all’ottima ricerca presente sul sito della Regione Emilia Romagna o ad altre ricerche localizzate, come quella della Società Italiana di Pediatria del 2010, o a quella Istat (dello stesso anno): il 36% dei bambini fra i 6 e i 10 anni fanno uso abituale di internet.
L’infanzia e l’adolescenza, mi dice Antonio Lanzoni, sono le età più critiche: tutte le tappe della vita sono piene di ansia, ma se un bimbo cresce in un mondo in cui ad ogni problema c’è una risposta “esterna” (la fuga nel mondo virtuale) non riesce a costruire una struttura “interna” che gli permetta di elaborare l’ansia, diventando un possibile web-dipendente.
I nativi digitali, conferma Mario Cipressi, vivono lo strumento come una protesi, una parte del loro corpo. Togliergli lo smartphone è come tagliargli una mano. Una forma di castrazione non simbolica ma reale: sento una ferita, mi è stato tolto qualcosa che fa parte di me.
A che età, quindi, dare il primo cellulare ai bambini?
«Il cellulare viene dato ai bambini per rispondere ad un bisogno dei genitori», (come quando la mamma ha freddo e fa mettere la maglia al figlio), mi risponde Antonio Lanzoni, e corrisponde a “un bisogno di controllo”. Anche perché, aggiunge Lanzoni, «mai come oggi sappiamo sempre dove sono i nostri figli a prescindere dai cellulari».
Di fronte a questa dipendenza, cosa si può fare?
Prima di rivolgersi a figure professionali (per ora in Italia i centri specializzati in dipendenza da internet sono due: al San Raffaele di Milano e al Gemelli di Roma), la prima operazione da fare è iniziare a darsi dei tempi, darsi un limite e verificarlo.
La seconda operazione è riabituarsi a stili di vita che prevedano contatti con la realtà: riprendere a fare attività e vedere persone. Più va avanti la dipendenza più c’è un ritiro sociale.
«La prevenzione è da fare su due livelli, -continua Lanzoni- fare attività di natura educativa è importante fin da piccoli, promuovendo fin dalle elementari stili di vita in cui i bambini siano incentivati a tirare fuori le loro risorse interiori. E poi il secondo livello di prevenzione è sui genitori». Se un genitore è preoccupato dell’abuso di tecnologia da parte del figlio, dovrebbe meditare sull’uso che lui stesso fa della tecnologia, e forse mettere il tablet nel cassetto.
«Ma l’atteggiamento degli adolescenti va gestito con molta delicatezza -mette in guardia Mario Cipressi- tante volte l’appoggio su forme tecnologiche è una modalità temporanea di riferimento in una fase critica della propria crescita. Un ragazzino mortificato a scuola, che subisce scacchi nella vita reale, va a trovare online un videogioco dove assume le sembianze di un condottiero vincente, trova il suo ruolo sociale e mette in campo le sue abilità. Così trova sul virtuale una sorta di compenso: questa non è patologia. Lo diventa solo se diventa compulsiva, da non poterne fare a meno. Altrimenti può essere anche un momento evolutivo. Per gli adolescenti ciò vale anche per altre forme di dipendenza e non solo per l’online: occorre evitare di patologizzare il non patologico».
Un utile consiglio per le famiglie, che davanti ad una tematica così nuova avanzano a tentoni. Comprare o no il cellulare a proprio figlio? A quale età cedere alle sue insistenze? Come regalo della comunione, o aspettiamo la terza media?
I genitori ricordino quello che mi dice Lorenzo Notari, in calce alla nostra chiacchierata: «quando hai uno schermo in mano, alla fine sei da solo contro il mondo. Se sei al bar, fai una battuta e nessuno ride… qualcun altro sdrammatizzerà in qualche modo. Se sei davanti ad uno schermo nessuno sdrammatizzerà l’assenza di like al tuo post».
Che tu abbia davanti l’ultimo modello di smartphone o il telefono di mia nonna, comunque sei sempre da solo, e dall’altra parte c’è tutto il mondo. Tutto, letteralmente.
Conviene forse ricordare quello che diceva Frank Zappa: nella lotta fra te e il mondo, stai dalla parte del mondo.