Per noi, la generazione più giovane che Avio Pinotti ha fortemente voluto e coltivato dentro l’ANPI si tratterà di fare senza di lui, provando ad essere come lui.
Di lui molto si sa e tanto è stato scritto. L’immagine pubblica è quella dell’uomo della Resistenza, poi del partito, dell’amministrazione comunale e dell’ANPI che ha condotto per 47 anni. A questo aveva sacrificato non solo la sua giovinezza, ma anche il suo privato e gli affetti familiari. Un grande cruccio per lui. Ma il cruccio più grande, che più ricorreva nelle sue riflessioni, era il sentirsi una sorta di orfano del Comunismo. «Io il Comunismo non lo vedrò mai e neppure i miei nipoti, temo.» E ciò nonostante quel collettivismo rurale di cui era stato un protagonista, fatto di rapporti sociali, impegno politico e partecipazione civile, aveva consentito alla sua generazione di edificare la società reggiana del dopoguerra facendone un modello. Il “modello emiliano”, appunto. Certo, poi era arrivata repentina l’eclisse del Sol dell’Avvenire, il conseguente spappolamento della Sinistra e gli ideali primigeni si erano resi irreperibili perfino a lui che li conosceva bene. Poco male, la battaglia per il futuro doveva continuare. In merito, aveva fatto tesoro di una sua particolarissima esperienza personale. «Io quando ero giovane vedevo mio padre vecchio nel modo di ragionare e non lo capivo. E mi sono ripromesso, da vecchio, di prestare attenzione ai giovani, di provare a capire, perché i giovani sono più vicini al futuro dei vecchi.» Un approccio che ha scaturito progettualità impensabili dentro un’associazione “vecchia” come l’ANPI, concretizzando la più innovativa varietà di produzioni culturali sul tema della storia e della memoria della Resistenza. E fatto di Correggio e della sua ANPI un esempio imprescindibile. Se all’uomo si può attribuire una eredità è questa senza dubbio.
I suoi maestri Avio li aveva trovati in montagna, tra i vecchi antifascisti. In pianura ne aveva avuto uno solo, ma più che sufficiente, Vittorio Saltini. «Mi lasciava sbalordito la sua capacità di dare parole a quello che io sentivo. Quello che in me era solo un sentimento di ribellione lui era in grado di farne un pensiero compiuto e restituircelo sotto forma di discorso politico, con una chiarezza a prova di bambino.» Per Vittorio Saltini sfidava volentieri i rigori dell’inverno e presenziava, immancabile fino agli ultimi anni, alle sue commemorazioni. L’importanza dei luoghi per la memoria della Resistenza è un altro dei suoi fondamentali insegnamenti. Periodicamente si andava in giro per cippi e case di latitanza, per vedere come stanno, perché magari c’erano dei lavoretti di manutenzione da fare. Poi scoprivi che quel vagolare per campagne, seguendo la sua personalissima geografia degli affetti, altro non era che la necessità di rimarcare il privilegio della vita: «noi siamo vivi perché loro sono morti, io questo proprio non riesco a dimenticarmelo…» Era in queste occasioni che si poteva parlare della Resistenza come lui la intendeva. Conosceva il buono e il cattivo di un’esperienza che, oltre tutte le note definizioni, per lui era stata essenzialmente l’atto fondativo di una umanità nuova. E davvero ha fatto il possibile per restituircene tutta la vera autenticità. Per tutto questo e molto altro, ci mancherai caro comandante.