Da alcuni mesi, a Correggio, l’ostello La Galera ha degli ospiti particolari. Sono profughi, giunti in Italia in seguito alle ultime, intense, migrazioni. La loro situazione è coordinata dalla Prefettura di Reggio Emilia, e la loro gestione è stata affidata alla cooperativa sociale Dimora d’Abramo, capofila di una raggruppamento temporaneo d’impresa. Abbiamo voluto incontrarli per conoscere le loro storie. Per sapere chi sono, da dove vengono, quali ragioni li abbiano spinti a partire.
Prima dell’intervista, abbiamo incontrato Gianmarco Marzocchini, assessore alle politiche sociali, per avere un quadro della situazione a Correggio.
«La distribuzione dei migranti nella provincia avviene, purtroppo, senza che vi sia un confronto programmatico con le amministrazioni locali, anche se Prefettura e Dimora d’Abramo cercano di operare al meglio, per evitare sovraffollamenti. A Correggio, oltre ai ragazzi dell’ostello, ne ospitiamo altri in un appartamento di via Vela, gestito dalla cooperativa sociale L’Ovile, e in via Sirena, col Ceis. A volte riusciamo a tenerli impegnati in lavori di pubblica utilità, come la raccolta delle foglie, la pulizia delle strade o la spalatura della neve.» Alla Galera i ragazzi sembrano essersi ambientati bene. Hanno stretto amicizia con alcuni correggesi, come Andrea Pedroni, che li aiutano a occupare il tempo libero, per il breve periodo della loro permanenza. Circa ogni due mesi, infatti, gli ospiti cambiano, perché nel frattempo vengono assegnati ad altri Comuni.
Si chiamano Felix, Francis, Otabor, Paul e Thomas. Hanno fra i 22 e i 28 anni. Vengono tutti dalla Nigeria, tranne Thomas, che è ghanese. Tutti e cinque parlano inglese. Felix è il primo a rompere il ghiaccio.
Da quanto tempo sei in Italia?
Felix: «Sono arrivato in Italia il 17 luglio 2015, ma sono partito da Lagos circa sei mesi fa. Tutti noi siamo arrivati in Italia quest’estate.»
Come avvenivano i tuoi spostamenti?
Felix: «Sono partito a piedi, diretto in Niger. Ho camminato a lungo, fino a quando ho incontrato un camion che mi ha caricato. Cercavo un posto dove cominciare una nuova vita, ma in quel paese ho trovato molto razzismo. Lì, infatti, sono stato fatto prigioniero: mi hanno portato nel deserto, minacciandomi con delle armi. Poi mi hanno venduto a dei libici e ho iniziato a lavorare come schiavo.»
Come schiavo?
Felix: «In Libia ho lavorato come schiavo per sei mesi. Facevamo un po’ di tutto, ma soprattutto lavoravamo nelle fattorie. Ogni tanto i nostri padroni ci rivendevano ad altri trafficanti. C’erano anche bambini, armati, che ci minacciavano e ci derubavano.»
Thomas: «Tutti noi abbiamo lavorato come schiavi, in Libia. Ogni giorno ci picchiavano. Ci davano gli ordini in arabo. Noi non capivamo e loro ci picchiavano, finché non facevamo quello che ci chiedevano.»
Otabor: «All’inizio anch’io ero stato catturato, ma poi sono stato rivenduto ad altri libici, che mi hanno trovato un lavoro come saldatore, a Tripoli. Non venivo pagato, ma almeno non mi picchiavano. Ci sono rimasto tre anni, in questa condizione.»