Anche se a volte è difficile da atea quale sono, nata e cresciuta in un contesto prevalentemente cattolico e con conoscenze riguardanti l’Islam puramente universitarie e non di fede, cerco di immedesimarmi in questa ragazza che mi siede al fianco, Chaimaa Fatihi, mia coetanea, mia con-cittadina di origini marocchine, ospite alla Libreria Macondo della Festa PD di Correggio per presentare il suo libro “Non ci avrete mai – lettera aperta di una musulmana italiana ai terroristi”.
Come fa a non spegnersi quel sorriso, dopo che su eventi e pagine Facebook l’hanno chiamata fondamentalista, islamista, antisemita, retrograda, hanno inneggiato all’uso del napalm e alla cancellazione della sua religione?
Come riesce, dimostrando di essere forse persino più emancipata e indipendente di molte “ragazze occidentali nostrane”, a prendersi su ogni giorno, incastrare esami universitari e conferenze in giro per il Nord Italia, week end in famiglia e presentazioni del suo libro, riunioni con interviste radiofoniche e televisive locali e nazionali, tutto questo nonostante le battute sugli autobus, gli sguardi impauriti quando il suo cellulare le ricorda l’ora della preghiera, la diffidenza che il suo scherzare in arabo-marocchino tra amiche può suscitare?
Dove trova la voglia di rispiegare ogni volta l’ABC della sua religione, cercando di fare chiarezza su quei termini ormai noti a tutti ma definiti da un sistema mediatico poco attento (o forse volutamente pressapochista) e non innervosirsi davanti alla presunzione dell’interlocutore che spesso crede di conoscere già la sua religione e non fa che elencare presunte colpe e pseudo-storiche mancanze, già pago delle proprie convinzioni?
Come può, ogni mattina, mettendosi l’hijab (il velo), non pensare alle migliaia di donne mussulmane che dopo l’11 settembre decisero di rinunciare al velo, non tanto per una mancanza di fede improvvisa ma per paura, la paura di essere identificate erroneamente con il diverso, il nemico, il terrorista?
Cosa frena in lei il montare della rabbia, la consapevolezza già la sera degli attentati -come, puntualmente, le è accaduto con la strage di Nizza- che l’indomani l’attenderanno telefonate, richieste di chiarimenti e dichiarazioni, nonostante la sua totale estraneità ai fatti, nonostante la profonda differenza che separa lei e quelli che definisce “i disumani”, gli attentatori di ogni religione e appartenenza?
Come accetta, ancora e ancora e ancora, di esporsi, di dialogare, malgrado la continua e netta sensazione che la sua presenza nei talk show, nei panel di discussione sulla religione, negli incontri politici non sia richiesta se non per metterci a posto la coscienza, in un pallido tentativo di dare spazio anche agli stessi musulmani (certo, quelli giusti, quelli buoni, quelli moderati, quelli che presenziano a Ballarò o L’aria d’estate ma a cui vengono poi rivolte le stesse complesse identiche domande alle quali però è necessario rispondere in fretta, senza approfondire, senza annoiare…)
Come fa a convivere con la continua pretesa, quell’invito sempre più brusco, sempre più irrifiutabile: “dissociati”.
Da cosa?
No, Chaimaa non si dissocia da chi sente così estraneo a sé, da chi non si sente di essere mai stata “associata”.
Chaimaa condanna.
In quanto cittadina italiana, proprio come me, in quanto donna, in quanto giovane, in quanto studentessa, in quanto credente, in quanto umana.